Autosufficienza 11: una scelta “politica”

Gli sbagli del recente passato e del presente e le prime avvisaglie di una crisi economica e alimentare che stiamo cominciando a sentire, ma che in futuro potrebbe essere davvero devastante, dovrebbero farci riflettere su come vogliamo costruire la società in cui viviamo e, soprattutto, in cui dovranno vivere i nostri discendenti. E, senza troppe nostalgie per un passato di povertà e restrizioni, potremmo recuperare molti aspetti positivi della civiltà agricola di cui siamo eredi.
Ogni eredità è insieme un regalo e un impegno e ci responsabilizza sia nei confronti di chi ce l’ha trasmessa, sia in quelli di chi ci seguirà. Noi siamo eredi di una civiltà contadina e di una società diffusa sparsa in piccoli nuclei abitativi (case singole, tetti, borgate, paesi) a presidio di un territorio utilizzato con intensità e con cura. Chi ci ha preceduto sulla terra che calpestiamo ha saputo trarre da essa, senza l’aiuto della moderna tecnologia, il necessario per vivere senza intaccarne il patrimonio di fertilità, anzi, incrementandolo nel corso dei secoli. Noi, prima generazione di spensierati con la pancia piena, stiamo invece dilapidando e rovinando irreparabilmente quanto abbiamo ricevuto.
Per affrontare alla radice il problema ambientale, invece di affidarsi a norme e divieti che hanno come unico risultato quello di complicarci ulteriormente la vita e di spingerci ad acquistare sempre nuove diavolerie, forse dovremmo ritrovare qualcosa del modo di vivere e di abitare dei nostri antenati e riscoprire il piacere, la soddisfazione e l’impegno di una vita fortemente radicata nella terra e capace di regalare un buon livello di autosufficienza alimentare ed energetica.
Già decenni fa Gandhi scriveva che chi lavora manualmente “ricaverà il più gran sollievo dai prodotti del suo lavoro, migliorerà la sua salute e scoprirà che molte cose che si permetteva prima erano superflue”. Pur non svalutando affatto il lavoro intellettuale, era convinto che “in nessuna quantità potrà compensare il lavoro fisico, che ognuno di noi è destinato a dare per il bene comune di tutti”.
In questo senso ogni tentativo e sforzo di autosufficienza è anche una scelta “politica”, perché si oppone concretamente ed efficacemente a questa società del consumo incentivato e spesso forzato. Non si tratta, naturalmente, di rifiutare l’economia di mercato, ma di voler evitare che il mercato invada tutti gli spazi vitali, diventando una divinità totalitaria e onnipresente. Un monoteismo distruttivo e pervasivo, che sta portando il mondo alla catastrofe e che sfrutta anche le migliori parole (salute, sicurezza, ambiente) per l’unico scopo di generare profitti per qualcuno.
“Tutto è merce” è il primo comandamento della religione unica che ha ormai conquistato l’intero pianeta, tutto si compra e si vende, tutto deve essere valutato in termini monetari. L’immensa varietà dei rapporti umani si riduce a due sole figure, venditore e compratore, separate dal muro dell’interesse e della diffidenza, e questo vale anche fra stato e cittadini e viceversa.
Cercare di prodursi almeno una parte dei beni necessari alla vita è un modo concreto di opporsi a questa deriva esistenziale e morale e di ritrovare spiccioli di autonomia e quindi di libertà. Perché l’autosufficienza genera autonomia e l’autonomia produce libertà.

Provare a prodursi alcune cose necessarie alla vita è anche una ginnastica utile, una palestra di ridimensionamento, una scuola pratica che ci fa capire quanto il saper fare sia più difficile del semplice sapere, quanta fatica e quanto lavoro ci sia in ogni cosa che usiamo o che mangiamo e quanto sia folle ogni tipo di spreco, personale o, ancor peggio, pubblico.
Ci insegna a diventare “conservatori” nel senso giusto del termine. La parola, che in politica usiamo spesso con opposto significato, ha invece un profondo senso rivoluzionario. Chi conserva non consuma, non spreca, compra di meno, ricicla davvero, scambia, dona. Tutti peccati gravi, per il dio mercato, la cui onnipotenza si basa anche su quella che uno studioso ha definito “l’incapacità indotta del consumatore”, cioè la pressione, psicologica, burocratica e legislativa, per farci credere incapaci di fare e di bastare a noi stessi per molti aspetti della vita quotidiana.
Lo sforzo di autosufficienza produce, a mio parere, due effetti solo apparentemente contrari ed entrambi benefici: da una parte ci fa capire i nostri limiti, le difficoltà, la fatica necessaria per procurarsi i beni primari, dall’altra genera fiducia in noi stessi.
Facendo le cose, scopriamo con sorpresa che in fondo siamo capaci di farle o, almeno, che possiamo provare a imparare tecniche, metodi e lavorazioni. La curiosità è una buona maestra e il fare regala soddisfazioni molto maggiori di quelle, effimere e in fondo un po’ tristi, che possiamo ricavare dallo “shopping”.
Scoprire di essere capaci di fare, nel senso di coltivare, costruire, riparare, è un piacere che ci regala equilibrio, soddisfazione e serenità e ha ricadute importanti sia per la nostra vita personale, sia per quella collettiva e quindi “politica”.

Pubblicato su La Guida del 22-12-022