Fasi di sviluppo di una dittatura

Le dittature, quasi sempre, nascono con una faccia tranquilla e rassicurante e muoiono nella sofferenza e nel sangue di molte vite innocenti.
Per lasciarle crescere e sviluppare non serve molto, basta un po’ di disattenzione, ma per levarsele di torno si paga spesso un prezzo enorme, in termini di lutti, distruzioni, privazioni, guerre fratricide. In genere finiscono appunto con quella che chiamiamo “guerra civile”. Per chi è attento alle parole, un accostamento davvero assurdo: cosa ci può essere di meno civile di una guerra?
Come molte malattie invadenti e invalidanti, non hanno data di nascita precisa, spesso impiegano anni o decenni per instaurarsi e prendere possesso dei centri vitali. E proprio come succede per tumori maligni o altre sindromi devastanti, quando ce ne accorgiamo e tentiamo di reagire può essere troppo tardi. Proprio per questo è di grande importanza cercare di prevenire, o almeno, di accorgersi subito che qualcosa non va e mettere in atto dei rimedi. All’inizio può essere relativamente facile sbarazzarsi dell’ospite indesiderato, poi diventa difficile o impossibile.
Il paragone con la nostra salute non è fuori luogo: in fin dei conti, la dittatura è una vera e propria malattia mortale a crescita subdola che può attaccare ogni stato democratico e quest’ultimo può essere immaginato come un grande organismo di cui noi siamo le piccole cellule.
Altro paragone valido lo possiamo trovare in campo agricolo. Le dittature sono come le erbacce invadenti che prendono progressivamente possesso di tutto il terreno disponibile fintanto che non lasciano spazio a nient’altro. Nella fase iniziale sarebbe relativamente facile estirparle ed eliminarle, ma se le lasciamo crescere liberamente non sarà più possibile contrastarle senza grandi perdite e fatiche.
Ogni futura dittatura all’inizio ha bisogno di consenso per mettere radici: per questo si presenta con una faccia tranquilla e accattivante. A volte, addirittura, permettere degrado, illegalità diffusa e piccola delinquenza è proprio un modo efficace per favorire nell’opinione pubblica quella richiesta di ordine e disciplina che facilita l’insediarsi di uno “stato forte”.
Molte dittature sfruttano nella prima fase proprio quella loro faccia “buona” e approfittano del naturale desiderio di ordine e sicurezza, offrendo apparente tranquillità in cambio di sempre minore libertà. Un baratto folle e insensato: la libertà non ha prezzo e non può mai essere merce di scambio. Inoltre, la storia ci dimostra che nessuna dittatura ha mai prodotto pace e benessere, ma sfocia inevitabilmente nella repressione violenta e nel conflitto armato.
Dopo questa prima fase di lento insediamento, alla dittatura basta l’indifferenza e la disattenzione per espandersi in fretta. Altro concime per la crescita è l’interesse economico o mediatico: soldi, successo e gloria a qualcuno in cambio di appoggi o distrazioni.
Negli stadi successivi della malattia destinata a far morire l’organismo democratico si arriva sempre al controllo o a una vera e propria presa di possesso dei centri di informazione e formazione, escludendo progressivamente le voci dissonanti e critiche. Carta stampata, libri, giornali, scuole e università. Adesso televisione, internet, social. Tutto deve essere funzionale al mantenimento del potere e, soprattutto, come stava scritto una volta sui tram, non si deve mai “disturbare il manovratore”.
Altra fase è la progressiva militarizzazione del Paese. Tutte le dittature hanno una qualche divisa, si appoggiano su un apparato militare che con ogni buona scusa deve essere potenziato e strutturato in modo gerarchico, autoritario e capillare.
La fase matura della dittatura sfocia spesso in una vera e propria guerra. È una conclusione quasi inevitabile, viste le premesse, il militarismo diffuso, la violenza ammessa e praticata in ogni sua forma.
Coalizzarsi contro un nemico esterno serve per distrarre l’opinione pubblica da insuccessi, delusioni e spesso disastri della gestione interna. Il nemico da combattere giustifica le spese militari crescenti, lo stato di sospensione dei diritti e nasconde pure le malefatte dei piccoli e grandi gerarchi di regime. Lo ha fatto a suo tempo Mussolini, lo sta facendo Putin con l’Ucraina, lo fa anche l’Iran, in modo spesso subdolo e indiretto.
Le armi servono all’esterno ma anche all’interno, per tener buona la popolazione e reprimere il dissenso. Si comincia sempre dai manganelli e, proprio per questo, i fatti di Pisa dei giorni scorsi dovrebbero servirci da campanello d’allarme.
Manganelli usati quasi sempre non contro persone pericolose o malintenzionate, ma contro gente comune e inoffensiva, che pretende solo di poter “manifestare” liberamente le proprie opinioni e il proprio dissenso.
C’è, a volte, una precisa volontà, in tutto questo, e anche una certa dose di vigliaccheria. In fondo è più comodo e meno pericoloso prendersela con gente pacifica e inoffensiva che con chi potrebbe reagire con violenza. Me ne sono reso conto con i miei occhi al G8 di Genova, nell’ormai lontano 2001, una pagina vergognosa della nostra storia recente. Mentre gruppi di teppisti o provocatori (gli allora famosi black-bloc) bruciavano indisturbati cassonetti o rompevano vetrine, i tranquilli pacifisti di Lilliput si sono presi manganellate o peggio. Io stesso me la sono cavata senza danni solo perché avevo buone scarpe e, allora, buone gambe e sono scappato in tempo. Per non parlare di quel che è capitato quella sera nella scuola Diaz.
Le violenze di questi giorni sembrano quindi riproporre un copione già visto e dovrebbero far scattare immediate e decise reazioni da parte di tutti coloro che, indipendentemente dal colore politico, hanno a cuore la nostra democrazia.
Essere antifascisti non vuol dire solo avere memoria del passato: è parola da declinare al presente e da vivere nella quotidianità.
Mio nonno materno, Cristoforo Coalova, è morto a Mauthausen perché, da tipografo, si ostinava a stampare parole di libertà in anni di guerra e dittatura fascista. Sua moglie, mia nonna Bianca, si è trovata con due figli piccoli, casa e tipografia bruciata, senza marito e senza mezzi di sostentamento.
Il fatto che oggi, dopo ottant’anni, io possa scrivere queste parole e vederle pubblicate su un giornale è un regalo che arriva anche dal loro sacrificio. Renderlo vano per colpevole indifferenza sarebbe un vero e proprio sacrilegio.

Pubblicato su La Guida del 29-2-024