La tera l’è basa

Il primo trattore (un po’ come il primo amore), non si scorda mai.
Il mio era un Sametto del primo dopoguerra, salvato dalla rottamazione e verniciato con spesse pennellate di smalto giallo per nascondere gli strati di ruggine. Col tempo lo avevo pensionato e sostituito con altri mezzi meno datati e più sicuri. Nel corso dei decenni successivi, pur non essendo agricoltore di professione, ho passato sui miei vari trattori alcune migliaia di ore: in tutto quasi un anno di vita, calcolando la classica giornata lavorativa di otto ore.
Anche per questa lunga condivisione di scossoni, rumori e vibrazioni, non posso non essere solidale con le attuali proteste degli agricoltori.
La nostra generazione è stata la prima a non avere esperienza diretta della fame e abbiamo fatto davvero in fretta a scordarci del legame strettissimo fra terra e cibo. Ci siamo abituati alla sicurezza di tavole imbandite, agli scaffali pieni dei supermercati, alle offerte “sottocosto” dei discount e abbiamo perso la consapevolezza del fatto che ogni cibo che mettiamo nel piatto ha un rapporto diretto o indiretto con la terra. Si potrebbe dire che è “un regalo” della terra, ma il termine non rende giustizia alla fatica, alla scienza, alla pazienza che sono stati necessari per produrlo.
Nonostante questa condivisione di fondo e di principio, credo però che le attuali proteste mettano in luce problemi difficili da affrontare e analizzare e corrano il rischio di essere strumentalizzate da forze politiche ed economiche che mirano ai loro personali interessi piuttosto che al reale miglioramento delle condizioni di vita e lavoro del settore che si definiva un tempo “primario”.
E proprio la parola “primario” ormai desueta e poco attuale, ci fa capire quanto siano cambiati, nel corso dell’ultimo secolo, il peso economico e la centralità dell’agricoltura. Senza andare indietro nel tempo agli anni di fine Ottocento, quando la stragrande maggioranza della popolazione era dedita all’agricoltura, ancora nell’immediato dopoguerra il numero di imprenditori e lavoratori agricoli era tale da tradursi in un peso elettorale in grado di condizionare governi e parlamento. Il boom industriale prima e la crescita del terziario poi hanno relegato l’agricoltura in secondo piano. Un impoverimento numerico del settore, sia in termini di addetti che di percentuale nel PIL, a cui è corrisposto un progressivo minor interesse della politica, che pare ricordarsi degli agricoltori solo quando conviene.
L’agricoltura è rimasta, per usare un paragone adatto al tema, una “vacca da mungere”, soprattutto a livello di aiuti europei (ancora numericamente consistenti, anche se male ideati e peggio distribuiti) e, a seconda dei casi, un “fiore all’occhiello” o uno specchietto per le allodole. Oppure un “campo” dove raccogliere facili consensi promettendo aiuti, contributi e sconti fiscali. Improvvisati condottieri di ormai comprovata incapacità e disonestà si fanno portavoce di un mondo di cui non hanno alcuna esperienza pratica.
E proprio le parole “esperienza” e “pratica” sono la discriminante fra chi ha o meno diritto di parola e di rappresentanza. La considerazione è valida in ogni settore dell’umana convivenza, ma nell’agricoltura in modo davvero speciale e particolare, proprio perché, come nessun altro, è un settore “terra-terra”. Espressione che non ha nulla di offensivo o riduttivo, ma ci ricorda quanto profondamente siano collegate teoria e pratica. Ne ho avuta esperienza diretta quando dopo la laurea a pieni voti in Scienze agrarie mi sono ritrovato a dover ripartire da capo e imparare di nuovo tutto. Cosa che, dopo mezzo secolo, sto ancora facendo, spesso con risultati mediocri. Forse in nessun altra attività umana la simbiosi fra mani e testa è così importante: pratica e teoria sono due pilastri che devono crescere insieme, altrimenti la casa viene sbilenca ed è destinata a crollare.
Negli anni degli studi di Agraria ho avuto ottimi professori, ma l’insegnamento più importante sono state le parole di mio nonno quando da bambino mi accompagnava con orgoglio a vedere l’orto e mi ricordava che “la tera l’è basa”. Il significato vero di quelle parole l’ho capito solo molti anni dopo: per raggiungerla occorre sempre chinarsi, sia in senso fisico che metaforico.
Dobbiamo ricordarcene sempre, quando siamo a tavola, davanti a una pagnotta di pane, un piatto di pasta, un’insalata o un bicchiere di vino. Tutto ci arriva dalla terra e da chi, con pazienza, fatica e passione la coltiva.
Anche per questo dobbiamo essere davvero solidali con chi protesta, cercando di capire le ragioni vere e profonde del disagio. Cosa che richiede riflessione e attenzione, per distinguere il grano dalla gramigna e per vedere oltre le sfilate dei trattori e la coreografia della protesta.
In agricoltura non c’è niente di facile e di scontato, tutto è insieme dono gratuito e fatica, regalo e impegno.
Vorrei quindi approfittare dello spazio concesso e della pazienza di chi legge per continuare il discorso, chiedendo perdono in anticipo per l’indebita mescolanza di ricordi privati con idee traballanti.

Pubblicato su La Guida del 15 febbraio 2024