Spreco e dintorni

Mi è sempre piaciuto curiosare nell’origine delle parole, perché spesso l’etimologia ci rivela il significato vero e profondo di termini che l’uso quotidiano ha logorato, attenuato o addirittura cambiato.
“Spreco” è una delle tante parole di etimologia incerta, ma è probabile che la derivazione immediata sia dal verbo latino exprecari che significa letteralmente “mandare in malora”. Come succede spesso, mi pare che anche in questo caso il significato originario ci riporti alla vera dimensione del termine: lo spreco, cioè il consumo esagerato e inutile è proprio la strada che ci porterà alla rovina e peserà come un’ipoteca sulle future generazioni: insomma, ci manderà in malora.
Non so se il piemontese sgairé e l’analogo occitano sgairàr abbiano attinenza con “gaire” (poco), ma in questo caso potrebbe voler dire che lo spreco ci porterà inevitabilmente a non avere più abbastanza: il consumo inutile e smodato avrà come conseguenza, prima o poi, la mancanza del necessario. Curioso notare che in lingua locale il sostantivo non si usi o quasi: c’è solo il verbo, forse per sottolineare che lo sprecare è un’azione, non un semplice termine grammaticale. Saggezza dei nostri antenati, per i quali sgairé era considerato peccato mortale.
Quando sento la parola spreco mi viene spontaneo associarla sia a fenomeni generali e di massa, come il consumismo legato alle recenti festività o l’obsolescenza programmata, incentivata e addirittura obbligata di veicoli e aggeggi elettronici, sia a immagini più specifiche e nitide.
Vedo, per esempio la sfilata di tir che portano a spasso bottiglie di plastica piene di acqua delle nostre montagne. Vedo opere, piccole e soprattutto grandi, di dubbia utilità e fattibilità, gli eterni progetti della TAV o del ponte sullo Stretto di Messina, proposti e caldeggiati da chi, dopo anni, non è neppure riuscito a riaprire il Tenda. I megaimpianti di biodigestione anaerobica. Oppure il tentativo ricorrente di ritorno al nucleare (quando ognuno di noi, in ogni bolletta della luce, sta ancora pagando, fra gli oneri di sistema, lo smaltimento delle scorie delle poche centrali dismesse: l’ente preposto pare che, dopo anni di duro lavoro e spese milionarie non sia riuscito neppure ancora a decidere i siti adatti).
Considero spreco anche la moda ricorrente di costruire nuovi ospedali o nuove scuole invece di migliorare e adattare le strutture già esistenti. In questi casi, all’avversione per gli sprechi, si aggiunge il dubbio che si usino parole di valenza positiva e pubblica, come sanità ed istruzione, per nascondere, in realtà, privatissimi interessi.
Nella sanità, come nell’istruzione o in ogni altro settore pubblico, la “coperta è corta” e ogni euro che si impiega da una parte ne toglie uno dall’altra. I soldi spesi in parcelle stratosferiche per studi di progettazione, “advisor”, cantieri che saranno infiniti, infrastrutture annesse e connesse, sono sottratti alle reali esigenze dei malati, proprio in un momento in cui la situazione per molti sta diventando drammatica.
Già il non far funzionare la sanità pubblica è un regalo indiretto ai privati, ma nel caso del partenariato pubblico-privato il settore pubblico sarà gravato in partenza da un canone milionario a favore del costruttore, una vera e propria ipoteca che peserà per decenni sulle prestazioni future per i pazienti. I privati ne ricaveranno un doppio beneficio, esplicito sotto forma di canone e implicito per le carenze indotte dalle ulteriori restrizioni di budget che costringeranno i malati a rivolgersi sempre più alla medicina a pagamento. I classici due piccioni con una fava.
Premetto che le mie sono opinioni personali di un semplice utente occasionale e riconoscente dei servizi sanitari, senza alcuna qualifica né esperienza professionale nel settore. Un “paziente”, nel senso ormai ricorrente del termine, che, come tanti, tempo fa, ha dovuto pazientare per qualche annetto in lista d’attesa per un’operazione.
Ma qui le opinioni, mi sembra c’entrino poco. Si tratta, in fondo, di semplice matematica, come quei problemini che ci assegnavano le maestre alle elementari: -la mamma dà a Pierino 100 lire per comprare le uova e il latte – dove a parità di somma spesa se compro più uova dovrò accontentarmi di meno latte e viceversa.
Mi dispiace in modo particolare che anche forze politiche che dovrebbero ispirarsi a principi di solidarietà ed eguaglianza (quei valori che una volta si chiamavano “di sinistra”) si mantengano su posizioni vaghe o favoriscano apertamente questa soluzione “mista”, cioè privata. Le dichiarazioni della sindaca di Cuneo, che si è affrettata a garantire autorizzazioni edilizie e adeguamenti alle infrastrutture e alla viabilità mi hanno sorpreso e costernato. Recenti dati ufficiali hanno confermato che proprio Cuneo e comuni vicini si sono distinti nella triste classifica del consumo di suolo e non vedo alcun segnale di inversione di tendenza, anzi…Nel mio paese, Cervasca, di recente una strada pubblica è stata ceduta a privati e vasti terreni agricoli hanno cambiato “destinazione d’uso”.
Il verbo sprecare ha infiniti complementi oggetti: si spreca acqua, si spreca tempo, si spreca energia, si sprecano parole e anche sentimenti. Ma lo spreco davvero imperdonabile e irreparabile, per chiunque abbia in qualche modo radici contadine, è proprio quello del terreno agrario. Continuare a cementificare il territorio è per me un vero e proprio crimine contro l’umanità. Anche e soprattutto se si cerca di giustificarlo con belle parole, come sanità, istruzione, assistenza o cura.
E, visto che si parla di spreco e che si avvicinano le scadenze elettorali, mi pare giusto ricordare l’obbligo morale di non sprecare almeno il voto. Nel senso, ormai diffuso, di “astenersi”, non andare neppure a votare, per sfiducia, menefreghismo, oppure per una falsa idea di contestazione del potere. Non votando, al contrario, facciamo un favore proprio a certi politici, amministratori e soprattutto faccendieri, e a quelli che qualcuno chiama “poteri forti”, che contano proprio sulla nostra colpevole indifferenza per continuare a fare i propri interessi.
Nonostante il degrado della scena politica (di cui siamo tutti responsabili), mi piacciono i riti elettorali: sono stati una conquistata pagata a caro prezzo dalle generazioni che ci hanno preceduto e la loro scomparsa segnerà l’avvento della prossima (forse imminente) dittatura. Dobbiamo considerarli momenti preziosi per esprimere la nostra voce e fare sentire le nostre ragioni e anche il nostro dissenso.
In questo, le votazioni hanno il significato scolastico di promozione o bocciatura. Per una volta che possiamo essere noi a giudicare politici e amministratori, non facciamoci scappare l’occasione. Se noi per primi ci “asteniamo” e sprechiamo il nostro voto, non potremo davvero lamentarci se gli sprechi pubblici e privati, prima o poi, ci manderanno davvero in malora.

Pubblicato su La Guida del 18 gennaio 024