Le “Montagne nostre” di Beppe Rosso

Nella mia libreria, per ragioni di spazio e per scelta, ho pochi libri. Sono un appassionato lettore, ma questo non si traduce in un accumulo di testi, magari mai sfogliati: del libro, come di ogni altra cosa, mi interessa l’uso, non il possesso. Ma fra i pochi volumi che conservo gelosamente c’è lo splendido “Montagne nostre” del 1975, un libro corale, scritto a più mani, in occasione del centenario della sezione di Cuneo del CAI.
Gli anni 70 del secolo scorso sono stati, credo, per le nostre valli, il periodo più difficile, quello in cui la montagna era davvero il “mondo dei vinti”. Industrializzazione e boom economico avevano svuotato le borgate, l’aleatorietà dei pochi soldi guadagnati a fatica con vitelli e castagne non poteva competere col miraggio dello stipendio a fine mese offerto dalle fabbriche che stavano nascendo in pianura. Ma, soprattutto, a far scappare gli ultimi abitanti delle valli, era la mancanza di considerazione sociale: chi restava era, appunto, un vinto, un perdente, oggi si direbbe “uno sfigato”. L’antica e nobile lingua d’Oc era un dialetto di cui vergognarsi, ostinarsi a coltivare fazzoletti di terra in forte pendio e tenere in stalla due vacche era una scelta da poveracci. I vecchi morivano, i giovani se ne andavano e i pochi sopravvissuti a questo esodo biblico affogavano spesso la solitudine nell’alcol e nella depressione.
In questa poco rosea situazione e per contrapporsi all’idea di una montagna “dissanguata” e vittima di un “divario incolmabile con la pianura” in cui sopravvivevano “pochi vecchi, abbandonati in condizioni da terzo mondo”, nasce l’idea di questo volume “collettivo che tratta di un bene collettivo, l’ambiente alpino”. La prefazione, da cui ho preso i virgolettati, è di Pier Paolo Giorsetti, i singoli capitoli sono invece affidati ai massimi esperti dei singoli argomenti: Piero Camilla, Gianromolo Bignami, Giancarlo Soldati, Angelo Morisi e tanti altri.
Ogni capitolo è nel suo genere un piccolo capolavoro, ma su tutti spicca quello intitolato “Cenni di architettura alpina” del nostro rimpianto Beppe Rosso.
Per studi, lavoro e passione, mi sono sempre interessato di architettura alpina, e da lettore vorace e inguaribile curioso ho avuto tra le mani molti testi anche ponderosi e scritti da grandi nomi che trattavano dell’argomento. Ma non ho mai trovato nulla di anche lontanamente paragonabile alla chiarezza e alla bellezza di queste poche pagine scritte dal nostro Beppe, impreziosite dai disegni e dal coordinamento di Gian Bertarione e nascoste, con l’umiltà dei grandi, dietro al titolo minimalista di “Cenni di architettura alpina”.
Se volete capire qualcosa di come fosse l’architettura delle nostre valli, dei materiali, delle tecniche costruttive, della localizzazione degli insediamenti, non andate a cercare i testi sacri e i grandi nomi di studiosi e accademici: nelle trenta pagine scritte da Beppe c’è tutto, esposto con la semplicità e chiarezza di chi è davvero “esperto”.
Nonostante siano passati ormai ventisette anni dalla morte di Beppe, la sua figura imponente e carismatica è ancora nella memoria riconoscente e affettuosa di tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e godere della sua amicizia. Anche chi non l’ha incontrato di persona, ne conosce le poesie e i testi, in piemontese, occitano e italiano. A Borgo e dintorni molti ricordano bene la sua figura imponente e carismatica, la sua bella voce, la presenza in feste e ricorrenze. Tutti questi molteplici aspetti di una persona con una cultura sterminata in campo umanistico possono mettere in secondo piano le sue conoscenze “tecniche” o scientifiche. Oggi i “sapienti” sono sempre più specialisti, sanno sempre più cose sul loro specifico ambito di ricerca, ma perdono di vista l’insieme. E sovente, prigionieri del loro stretto angolino di visuale, cadono nel peccato mortale della presunzione, di certo la peggiore nemica di scienza e conoscenza.
“Esperto”, lo dice la parola stessa, è invece chi ha fatto davvero esperienza, arrivando alla teoria solo attraverso il passaggio dalla pratica quotidiana e conservando l’umiltà che deriva dalla fatica e dalla consapevolezza di poter progredire solo attraverso errori e incertezze. Beppe era un esperto nel senso vero e pieno del termine, poteva parlare di pastorizia, agricoltura e architettura perché nella sua gioventù aveva vissuto lunghe estati da pastore nel vallone dell’Arma, aiutando i parenti della madre e condividendone la dura vita in alpeggio. Le sue spiegazioni sulla struttura della casa alpina, sulle diverse tipologie di tetto erano chiare e tecnicamente perfette, perché lui a pietre e travi, lose e paglia aveva davvero messo mano. Un sapere, il suo, sempre unito al saper fare.
Chi, come me, ha la passione per la montagna antropizzata e ama passeggiare per sentieri alla ricerca dei tesori del nostro passato, borgate, forni, cappelle, mulini, non può davvero fare a meno di leggere e studiare questo piccolo grande capolavoro. Queste mie righe sulla Ciapera di quest’anno vogliono quindi essere solo un invito a rileggere il capitolo sull’architettura alpina e tutto il magnifico volume Montagne nostre.
Per finire questo mio breve ricordo di Beppe vorrei riportare un episodio dello scorso millennio, quando abitavo a Borgo nel suo stesso vicolo ed ero ancora studente di Agraria. Stavo preparando la mia tesi di laurea sui pascoli della valle Stura e un giorno mi era capitato di incontrare Beppe sotto casa sua. Senza pensarci gli avevo chiesto se sapeva qualcosa sull’origine dei nomi propri dei cento alpeggi che avevo esaminato. “Cheicusetta sai pru” era stata la sua risposta mentre mi faceva cenno di seguirlo nella sua stanza al primo piano. Due ore dopo ero uscito con decine di fogli di appunti: di ogni pascolo Beppe mi aveva raccontato la genesi del nome, la derivazione dal latino, dal greco, dal gallo celtico, dal gallo ligure, il significato e anche il perché della denominazione. “Monfieis è il monte dei faggi, si chiama così perché è un vallone mal esposto, umido e i pascoli sono circondati da faggete”. Me ne sono ricordato decenni dopo, quando mi è capitato di far legna proprio su quei pendii: per i casi della vita ero andato a vivere in zona e, fra i terreni acquistati c’era anche un alpeggio in quota che ci regalava il combustibile per la stufa.
Le parole, mi diceva Beppe, nascono sempre su substrati precedenti e a volte possono stratificarsi in modo curioso. Ad esempio, il Ventabren, una montagna che si trova poco oltre Vinadio (ma nomi simili ci sono anche nelle valli francesi) deriva da una radice ligure “bren” che significa monte e da un’altra celtica, “ven” che ha l’identico significato. Gli invasori celti avevano aggiunto la parola “monte” davanti a quella preesistente, che credevano un nome proprio, e noi ora facciamo lo stesso, col risultato di chiamare il Ventabren “monte-monte-monte”, tre nomi comuni per fare un solo nome proprio. Stessa cosa per il lago del Laus (che significa lago), ma qui arriviamo solo alla seconda potenza.
Ora ci sono molti studi di toponomastica e di linguistica, ma allora erano davvero continenti inesplorati. La chiacchierata con Beppe era diventata un capitoletto della mia tesi e quelle poche pagine avevano attirato la curiosità e l’attenzione della commissione di laurea molto più di tutto il resto del mio lavoro di ricerca, regalandomi una buona valutazione finale.
Merito di Beppe, che già allora aveva capito che le parole sono come le pietre da costruzione, che hanno infinite vite e si possono assemblare in tanti modi diversi. Anche con le parole Beppe era un ottimo architetto e in ogni testo che ci ha lasciato, come nelle indimenticabili pagine del libro Montagne nostre, dietro la forma chiara e semplice si vede la sostanza di chi, prima di parlare e scrivere, aveva fatto.

Pubblicato su La ciapera del dicembre 022