Autosufficienza 10: motivi di preoccupazione

La volta scorsa si era parlato degli aspetti positivi che lasciano ben sperare per il futuro della nostra agricoltura e della nostra società. Purtroppo, assieme a questi “semi di speranza” ci sono anche molti motivi di preoccupazione per tendenze negative nel settore primario, sia a livello italiano che, soprattutto, mondiale.
L’aspetto più preoccupante si può riassumere in una sola parola: concentrazione. Quando si legge nei rapporti ufficiali che il quaranta per cento della produzione mondiale di sementi è in mano a due sole grandi multinazionali, una con radici in America e l’altra in Cina, non si può stare tranquilli e far finta di niente. Soprattutto se le stesse grandi aziende lavorano anche nel settore della genetica e della chimica, chiudendo un cerchio dannato in cui si progettano e realizzano sementi di piante resistenti agli antiparassitari offerti dalla stessa società. In pratica si studiano varietà non sensibili, per esempio, a un determinato diserbante e si offre così l’accoppiata semente-antiparassitario. Prendi due e paghi quattro, visto che di fatto queste ditte lavorano in regime di monopolio e possono fare i prezzi che vogliono.
In passato ogni contadino produceva le proprie sementi, o al massimo, le scambiava con i vicini. La selezione e riproduzione dei semi è diventata col tempo un settore specialistico, ma ancora una quarantina d’anni fa c’erano migliaia di aziende nel mondo dedite a questo importante lavoro. La necessità e i costi della ricerca e le leggi sulla protezione dei brevetti hanno spinto a successivi accorpamenti e a quella che chiamano “integrazione verticale”, cioè a riunire nella stessa realtà commerciale settori un tempo differenti. Dove una volta c’erano aziende diverse che offrivano concimi, antiparassitari, sementi ora c’è un’unica società che ha in mano tutta la filiera produttiva, dettandone l’evoluzione e le regole secondo i suoi interessi.
La parola “concentrazione” vale poi anche per la proprietà terriera e la tendenza mondiale è verso un’agricoltura “industriale” con una riduzione progressiva del numero dei lavoratori, che non sono più proprietari-imprenditori, ma solo manodopera salariata. Il fenomeno del land grabbing, l’accaparramento di terreni coltivabili, è devastante in Africa e altre parti del mondo, ma anche in America e in Europa la proprietà terriera tende a concentrarsi nelle mani di società speculative e grandi gruppi economici. Un ritorno, questo sì, al Medioevo, con i grandi feudi e i servi della gleba.
Per questo, la situazione italiana in cui sulla terra vivono e lavorano ancora oltre un milione di persone, in buona parte “coltivatori diretti” proprietari di aziende medio-piccole diventa un tesoro prezioso da salvaguardare e un fattore di speranza per il futuro. La piccola proprietà terriera, fatta di aziende famigliari che si trasmettono magari da generazioni la cultura e l’esperienza necessarie a coltivare è per me il punto forte della nostra economia e la vera garanzia della salvaguardia ambientale, che passa per il corretto utilizzo, non certo per l’inselvatichimento, il degrado o la mancata coltivazione.
Un’altra tendenza pericolosa è la fiducia in una crescita quantitativa di produzione facile e illimitata. I progressi delle rese agricole del recente passato possono aver indotto qualcuno a illudersi che sia facile e normale continuare su questa strada. Non è così e per spiegarlo basta ricorrere a un semplice esempio.
Se vado in bici a dieci chilometri all’ora, non farò troppa fatica a raddoppiare la mia velocità. Ma se invece pedalo già ai venti all’ora, dovrò sforzarmi davvero ed essere ben allenato per raggiungere i quaranta orari. E se poi sono un buon cicloamatore in grado di fare agevolmente trenta chilometri in un’ora, dovrò rassegnarmi a non poter mai raddoppiare la mia velocità oraria: neppure il fenomeno Filippo Ganna è riuscito a portare il record oltre la soglia dei sessanta chilometri.
L’esempio ciclistico può tradursi in una legge empirica: in qualsiasi settore è facile ottenere miglioramenti partendo dal basso, mentre diventa sempre più difficile quando già i risultati sono buoni e i numeri elevati. E’ quella che gli economisti, che come tutti gli studiosi amano parlare difficile, chiamano “legge della produttività marginale decrescente”.
L’esempio del mais è emblematico: a inizio Novecento la produzione per ettaro era molto bassa, di poco superiore ai dieci quintali di granella. Oggi si superano i cento quintali, con un incremento enorme, dieci volte tanto. È vero che il “granoturco” del passato, da polenta e con buone qualità organolettiche, era solo un lontanissimo parente degli attuali ibridi zootecnici, che sarebbero immangiabili, ma è altrettanto vero che sperare di avere in futuro incrementi simili sarebbe insensato, esattamente come immaginare di incrementare la propria velocità di pedalata da venti a duecento chilometri all’ora. Senza contare che sovente la crescita quantitativa si paga con una perdita di qualità, sia a livello di gusto che di capacità nutrizionale (e il caso del mais lo dimostra chiaramente).
Tutto questo per dire che puntare all’infinito su incrementi di produzione non ha senso e non è la strada giusta per garantire la pancia piena e la buona salute a una popolazione mondiale in continuo aumento. Soprattutto se, parallelamente, si diminuiscono le superfici coltivate e si continua a cementificare o lasciar inselvatichire il terreno fertile con le scuse più varie.

Pubblicato su La Guida del 15-12-022