In debito con la Grecia

Democrazia è una parola che ci hanno regalato i greci, ce lo ricorda l’etimologia che associa il governo al popolo, fondendo due termini prima di allora considerati inconciliabili. È tipico del greco antico costruire parole composte, sposando fra loro pezzi diversi che si amalgamano fino a diventare una cosa sola, un concetto nuovo che prima non esisteva: demo-crazia, eco-nomia, eco-logia, filo-sofia.
Dobbiamo ai greci la maggior parte delle parole del nostro dizionario, ma soprattutto siamo debitori verso quel piccolo popolo per gran parte di quello che chiamiamo civiltà, arte, letteratura, filosofia, scienza. Sono greche perfino le parole di vita eterna dei vangeli, era ellenistico lo sfondo culturale che ha permesso la nascita e lo sviluppo della nuova religione che chiamiamo cristiana. Ai tempi di Cristo, perfino gli alti funzionari e i governatori romani parlavano in greco: è probabile che Pilato si sia rivolto all’uomo che avrebbe condannato, in quella lingua universale.
Un monopolio culturale ancora più invadente di quello dell’inglese dei nostri giorni, con la non trascurabile differenza che il greco era la lingua dei vinti, non dei vincitori. Una cosa davvero fuori del comune: come se gli inglesi, dopo aver conquistato l’India si fossero messi a scrivere in sanscrito, cambiando addirittura l’alfabeto e adottando  i modelli culturali induisti, o gli americani dopo aver annientato i Pellerossa avessero scelto come lingua sovranazionale un dialetto cherokee.
Il paragone con cosa ci abbiano regalato i tedeschi è meglio non farlo, sarebbe talmente impietoso da risultare fuorviante e rischierebbe di falsare i termini del problema. Non si tratta, infatti, come vogliono farci credere (quasi fosse l’ennesima partita di calcio) di Grecia contro Germani o viceversa, dello scontro fra la visione rigorosa e un po’ ottusa della Merkel e quella più realista e aperta del nuovo governo greco.
Si tratta del conflitto fra due modelli basati su due filosofie diverse e due visioni opposte dell’economia e della vita. Una che mette al centro l’uomo e l’economia reale, l’altra la finanza e il dio mercato. Una che pensa al benessere presente e futuro di uomini, donne, anziani, bambini e si prende cura del pianeta, l’altra che parla di spread, trading, default, prigioniera di un mondo di numeri senza più alcun riferimento con la realtà.
Scontro che ci coinvolge in pieno, anzi, che stiamo pagando anche noi a prezzo esorbitante. Chi in questi giorni, vedendo le code dei greci davanti ai bancomat vuoti pensa: “poveretti loro”, con la malcelata soddisfazione della disgrazia scampata perché capitata ad altri, è un illuso. La questione “greca” interessa tutti noi personalmente, i nostri figli, la qualità della nostra vita, le prospettive per il futuro.
Se sono costretto a lavorare controvoglia e contro ogni logica dopo quarantaun anni di servizio, se mia figlia per trovare una precaria occupazione è dovuta andare all’estero, se pago di tasse per la casa di famiglia tre volte tanto quello che percepisco come reddito e venti volte quello che pagavo dieci anni fa, se ogni giorno inventano qualche nuova trappola burocratica per fare cassa, è perché qui da noi (non in Grecia o in Germania) sono state fatte precise scelte, dettate da opportunismo, paura e scarsa dignità. Dare la colpa a chi è lontano, a chi c’era prima, a chi è sotto, sopra, di fianco e ai lati è nostro sport nazionale, ma non risolve la questione, semplicemente la sposta.
Quello che sta capitando dall’altra parte dell’Adriatico è quindi un problema nostro. E come capita spesso, la presentazione degli avvenimenti  attraverso i mass media non aiuta la comprensione e rischia di falsare la prospettiva. Non si tratta (solo) dello scontro fra Germania (i buoni, le formichine laboriose) e Grecia (i cattivi, le cicale che dopo aver ballato il sirtachi per anni, si rifiutano di onorare i debiti). L’ennesima riproposta in chiave sempre rinnovata dell’eterno conflitto nord-sud, del contrasto fra il figlio prodigo e il fratello maggiore.  E non è neppure questione o conseguenza dell’euro, la moneta unica su cui tutti i Salvini e i Grillo del mondo scaricano le loro frustrazioni e le altrui colpe. Senza il paracadute dell’euro è probabile che la lira avrebbe fatto la fine di molte monete centrafricane, facendoci fare un ulteriore passo verso il terzo mondo.
Il vero problema non è la moneta unica, ma aver ceduto a organismi non eletti e non rappresentativi tutto il potere decisionale. In altre parole, aver tradito quella democrazia che i greci avevano inventato migliaia di anni fa. Chi governa davvero l’Europa è la Banca centrale europea (BCE) in combutta col Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale. Enti guidati da consigli ristretti e persone singole, che hanno un potere decisionale enorme senza mai aver affrontato il giudizio di alcun elettorato.
Il Fmi (chi ha curiosità nel settore e vuole inorridire vada a vedersi la ripartizione delle quote e il modo di votazione) tiene in mano i cordoni della borsa, usando i crediti concessi come arma di ricatto per far passare politiche liberiste devastanti, storicamente perdenti ed economicamente assurde.
Le stesse politiche che per decenni hanno impoverito molti stati del Sud America e dell’Africa, regalando guerre, fame, disperazione (e fondamentalismo) e che da qualche anno sono riproposte nella nostra vecchia Europa, cominciando dai paesi deboli, Grecia, Italia, Spagna. Le stesse che tutti noi italiani stiamo pagando ogni giorno sotto forma di disoccupazione, disperazione, lavoro coatto, tagli nei servizi, tassazioni esorbitanti e ingiuste, crollo della qualità della vita.
Anche il sistema è sempre lo stesso. Si danno soldi, si fanno prestiti, si spingono i governi a incastrarsi sempre di più nella spirale del debito, per poi prendere il timone della barca e imporre le proprie regole. Come quelle che si vorrebbero dettare in questi giorni ai greci: una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettive di ripresa, ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, ulteriori tagli alle pensioni, diminuzione dei salari nel settore pubblico, aumento delle imposte, cessazione del servizio sanitario ai disoccupati.
Indurre chi è in difficoltà a indebitarsi, ben sapendo che non potrà pagare, per strozzarlo con ricatti e minacce è arte antica, che va sotto il nome di usura. Tra i tanti reati finanziari è uno dei più odiosi. Se poi è praticato, di fatto, da organismi internazionali che usano il debito per imporre una loro ricetta (per di più fallimentare) è qualcosa di rivoltante e preoccupante.
È questo che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, non l’euro e neppure l’Europa. Il rischio è proprio che si usi e si canalizzi la sacrosanta rabbia della gente contro il bersaglio sbagliato, facendo il gioco di chi tiene in mano i fili.
Nel balletto delle cifre che sempre accompagnano queste storie di ordinaria follia economica e che rendono difficile la comprensione dei fatti e delle ragioni occorre almeno chiarire qualche concetto. Dei 260 miliardi di euro che la saggia Europa ha dato alla Grecia sprecona, in realtà 230 (quasi il 90%) non sono andati alla Grecia, ma alle banche. Soldi destinati quindi non al popolo greco, ma usati per impedire che banche francesi, tedesche e di altri stati, esposte nei confronti della Grecia, dovessero affrontare perdite rilevanti. Insomma, ci si preoccupa dell’usuraio, e non si fa quasi nulla per salvare “l’usurato”.
La cura della premiata azienda sanitaria BCE e FMI non è iniziata oggi e ha dato finora risultati pessimi nei confronti della stessa Grecia. Il calo del PIL che doveva attestarsi sul 5% è volato a meno 25, cinque volte tanto, con crollo verticale dell’occupazione e delle possibilità di ripresa. La cosa assurda è che il FMI persiste da decenni negli errori: già nel 1998, nello scorso millennio, aveva gestito con le stesse medicine di stupida austerità e gli stessi risultati devastanti la crisi asiatica. Come se in campo medico si usasse un prodotto che fa strage dei pazienti e si continuasse a farlo per decenni, per lucrare sui servizi di pompe funebri.
Se non vogliamo che il sogno europeo si trasformi in un incubo, occorre vigilare che l’Unione Europea ritorni un’istituzione democratica dei cittadini, rispettosa delle prerogative di tutti i suoi membri e cessi di essere ostaggio degli apparati burocratici, delle lobby affaristiche e della finanza mondiale.
Solo così si potrà preservarla dagli attacchi di professionisti della distruzione e da coloro che, da opposti schieramenti, hanno costruito la loro carriera politica e la loro fortuna personale improvvisandosi cantori del malcontento comune.
Siamo tutti in debito con la Grecia e in questi mesi rischiamo di ricevere dal popolo ellenico un’altra lezione di democrazia. Chi ha la pazienza di leggere la lettera aperta che il premier Alexis Tzipras ha scritto a “greche e greci” per annunciare il referendum sull’euro non può non restare stupito e ammirato per la dimostrazione di dignità e correttezza. Il minimo che possiamo fare per sdebitarci è fare pressioni sui nostri governanti (che finora hanno brillato per opportunismo e ipocrisia) per costruire un’altra Europa. L’Europa dei popoli, delle persone, dei diritti e non quella dei mercati, dei ricatti, dei soprusi.
Ridimensionando un vecchio slogan, potremmo dire che, se tutti insieme lo vogliamo davvero, “un’altra Europa è possibile”.

Cervasca, 30 giugno 015                    lele
Pubblicato su La Guida del 3 luglio 015