Catterina Damiano, testimonianze

La memoria e la disponibilità di Catterina Damiano ci regalano, oltre alle favole di cui ho riportato qualche stralcio, anche molti altri tesori preziosi: i ricordi dell’infanzia, i giorni terribili della guerra, le tecniche agricole del passato, o anche piccoli episodi di vita quotidiana, avvenimenti inconsueti rimasti impressi per decenni nella memoria. È difficile scegliere qualche brano, anche perché ogni pagina di quaderno e ogni momento delle registrazioni nasconde una storia da raccontare, che meriterebbe spazio, tempo e parole. Mi limito a riportare qualche immagine staccata, usando le frasi come fossero fotografie da sfogliare, come si fa quando ci si ritrova per mano qualche vecchio album di famiglia sepolto in cassetti aperti di rado, o si aprono cassette metalliche di antichi biscotti piene di foto sbiadite in bianco e nero.
Molti ricordi riguardano i giorni della guerra, tempi “brutti” in cui violenza, paura e odio erano arrivati fin nelle tranquille borgate di montagna.
Le colonne di fumo che si alzavano dalle case dei Damiani incendiate dai tedeschi e i muggiti disperati delle vacche che si sentivano fin dall’Ambourné, l’angoscia, la paura e la partecipazione per la sofferenza dei vicini di borgata “che erano tutti parenti, amici o compagni di scuola”.
Il padre che, in quei giorni, aveva fatto un buco nel forno per nascondere una cassetta con “tutta la biancheria più bella di tela, lenzuola e coperte”, coprendola poi col carbone residuo della cottura del pane. Un piccolo grande tesoro, da preservare a ogni costo da razzie e distruzioni.
La febbre maltese che aveva colpito Catterina e la madre, proprio negli anni della guerra. Il trasporto delle malate in slitta sul ripido sentiero della borgata, poi col calesse del dottore fino all’ospedale di Caraglio, gremito all’inverosimile. E, in mezzo alle corsie affollate, il pianto disperato di una bambina per la fame: aveva il tifo e, secondo le prescrizioni terapeutiche di allora, non poteva mangiare nulla.
I giorni ancor più lontani della prima guerra mondiale, vissuti attraverso i racconti della mamma, gli uomini al fronte, lei rimasta nella borgata con i bambini piccoli da sfamare che aveva “tagliato tanta legna e fatto tanto carbone” portandolo poi a vendere a valle.
Le “calze di lana di pecora che tenevano caldo” fatte dalle donne e spedite ai famigliari prigionieri in Germania, i pacchi messi insieme a fatica, messaggeri d’amore e di speranza che partivano per quelle destinazioni lontane.
Ricordi di guerra lontani ormai settant’anni, che rischiano di essere confinati nei libri di storia diventando numeri e statistiche e che ridiventano vivi attraverso queste immagini che la memoria degli anziani ci consegna.
La religione dei tempi passati, vissuta in una dimensione comunitaria e quotidiana. Le processioni solenni, con le statue di Santa Lucia portata fin su al pilone dei Porti in occasione della festa, le lenzuola bianche e le tovaglie stese sui balconi per il Corpus Domini, i funerali di quelli che potevano pagare con tre preti e le candele nuove e quelli della gente comune, con un solo sacerdote e candele già usate, la costruzione con il lavoro di tutti del pilone di Rocca Stella, da cui si vedeva tutta la valle, per invocare la protezione della Madonna “Regina Mundis” su tutti gli abitanti.
Il pellegrinaggio annuale a Castelmagno per la festa del santo protettore del bestiame, a piedi per i sentieri che passano da Frise. San Magno era “un santo che non si dimenticava”, non c’era porta di stalla che non recasse appesa la sua immagine. Mucche, capre e pecore, capaci della magia di trasformare l’erba in alimenti preziosi, erano allora il più importante capitale, chiave della sopravvivenza, fonte di calore e membri della famiglia. Al santuario di San Magno “si faceva la novena, si prendeva l’immagine, si raccomandavano le bestie, si pregava e si dava l’offerta”. Era anche l’occasione per una gita di gruppo, fra parenti e amici, un momento di festa e socializzazione.
Proprio tornando dal santuario, l’incontro con un uomo che falciava un prato “legato con una corda che passava sotto le braccia” su un pendio quasi verticale. Il padre e gli amici si fermano a scambiare due parole con il sitoùr, che sta martellando la falce e l’immagine dell’uomo che lavorava appeso resta impressa per sempre nella memoria, “un ricordo che non dimentico mai”. Assieme ai commenti degli adulti, che si rallegravano di non dover lavorare in condizioni tanto dure.
Molti ricordi sono legati a pratiche agricole: la battitura della segale, la lavorazione della canapa, il burro, i formaggi, la legna.
La segale era allora il cereale più coltivato, quello con cui si faceva il pane. È una pianta rustica e di taglia molto alta: per evitare che si allettasse si usava sostenerla con dei rami, come si fa ancora con i piselli. All’epoca della battitura bisognava però togliere le parti legnose, “enlevar le brocie”. Compito di Catterina, quand’era bambina, tenere lontane le galline (parar i gialine) e separare le cariossidi attaccate dal fungo che provoca quella che si chiama “segale cornuta”. Il nome deriva dalle escrescenze sui semi, simili a cornetti. La segale colpita non è più commestibile, a causa di una tossina molto pericolosa per la salute. Come molti veleni, in giuste dosi può essere usato come medicina e le cariossidi colpite venivano vendute a buon prezzo a ditte farmaceutiche. Alle dita agili dei bambini era affidato l’incarico di individuare e separare “le maire dou bia”, cioè le spighe infette. È molto probabile che alcune misteriose epidemie nei secoli lontani del medioevo, classificate come “fuoco di sant’Antonio”, siano state in realtà intossicazioni dovute alla massiccia presenza del fungo sulla segale usata per la panificazione.
La canapa era coltivata per farne lenzuola, tessuti e corde. La lavorazione era lunga, con molte fasi, che portavano a separare la parte fibrosa (risto) dal midollo (standuei). Quest’ultimo costituiva lo scarto, ma non si buttava, si teneva “da count” per accendere il fuoco d’inverno. Catterina ricorda che nelle veglie serali in stalla un vicino di casa, Toni, mentre parlava recuperava i pezzettini di risto che restavano attaccati agli standuei e li attorcigliava sul dito. Così, prima della fine della serata si era fatto una cordicina che usava poi per legare i sacchi.
Due piccoli esempi di una civiltà capace di dare valore a ogni cosa e in cui nulla era “rifiuto”. Tempi di grandi fatiche e di minore ricchezza, ma anche di maggior serenità, di vita più semplice e distesa, di capacità di socializzare e di aiutarsi reciprocamente.