Breve viaggio nei beni comuni

Breve viaggio nei beni comuni 1
C’è un filo conduttore che lega gli Statuti quattrocenteschi, la storia dei nostri paesi, l’unica donna ad aver vinto il Nobel per l’economia e le grandi riflessioni e speranze espresse nell’Enciclica Laudato sii: i beni comuni.
Vale la pena fare un breve viaggio cercando di ritrovare questo filo conduttore, di seguirne le tracce e ricostruirne il percorso e gli sviluppi.
I beni comuni sono un tema di grande attualità, ma che attraversa i secoli e affonda le sue radici nei tempi lontani in cui i nostri paesi stavano costruendo la loro autonomia e inventando le regole condivise da cui sarebbe nata l’attuale democrazia. Perché è vero che il brevetto del termine risale agli antichi greci, ma è altrettanto vero che ogni popolo e ogni epoca deve scoprire e costruire la “sua” democrazia. In questo, come in altri campi, ognuno deve fare la propria strada ed esperienza: la democrazia non si esporta e non si impone, ma si deve guadagnare e conservare a fatica.
Qui da noi, i primi germi della futura democrazia nascono con gli Statuti comunali del medioevo. I Capitoli o Statuti sono corpi legislativi del 1300 e 1400 che riflettono un precedente diritto consuetudinario non formalizzato e segnano un’importante conquista nei confronti del potere feudale e religioso. Marchesi, conti e abati devono “concedere” ampi spazi di libertà e autogestione alle Comunità e venire a patti con i loro sudditi che iniziano a pretendere di darsi da soli le proprie leggi. È una sorta di “primavera”, di risveglio, di resurrezione che si propaga con il consueto e veloce contagio delle idee e in pochi decenni trasforma i nostri paesi e le nostre città.
Come capita spesso, la relativa libertà, si accompagna a un progresso dell’economia e a una riscoperta dei valori della cultura e dell’arte. Le tracce di questo tempo favorevole restano ancora ben visibili sui muri delle chiese, con gli affreschi quattrocenteschi che sanno esprimere tutta la vivacità del pensiero dell’epoca.
Il prezioso numero speciale della Guida sul centro storico di Cuneo ci conferma che molti dei palazzi che abbelliscono via Roma sono costruiti proprio in quel periodo.
Al centro di questo processo virtuoso ci sono i beni comuni. Le “Comunità”, come dice la parola stessa, nascono attorno a questo patrimonio collettivo e condiviso, che deve essere valorizzato, difeso, regolamentato.
Boschi, pascoli e corsi d’acqua sono beni da usare con attenzione. Occorre darsi delle regole e stabilire un sistema di controlli e sanzioni che sia efficace e non dispotico. Bisogna saper mettere insieme rigore e flessibilità, contrastare le inevitabili derive egoistiche, gli abusi, le appropriazioni indebite, evitare un’eccessiva disparità di potere e di reddito fra i membri della comunità, frenare litigiosità e contrasti. In termini matematici, si tratterebbe di risolvere un’equazione con tante incognite o un problema complesso, in campo sociale e politico, di affrontare un difficile esercizio di equilibrismo fra forze ed esigenze contrastanti.
Occorre conciliare l’urgenza di nutrire, vestire e ospitare una popolazione numerosa, sfruttando tutte le risorse del territorio con la necessità di non consumarle o degradarle e l’esigenza di pensare al presente con l’imperativo morale di non compromettere il futuro.
Dopo la batosta della peste trecentesca, nel 1400 c’è stata una buona ripresa demografica che ha spinto a rendere più intensiva l’agricoltura. Risalgono a quei decenni molti degli attuali canali che rendono fertile la campagna cuneese. Anche in montagna si scavano bealere, affrontando ancora maggiori difficoltà a causa della morfologia irregolare del territorio, della diversità di flusso stagionale e della presenza di rocce. Un lavoro impegnativo, che si prestava male a un controllo centralizzato. Secondo alcuni studiosi nasce proprio dalla necessità di costruire e mantenere le opere irrigue quel primo fermento di autogestione che porterà allo sviluppo di pratiche e istituzioni democratiche. Il lavoro condiviso, l’esigenza di darsi regole accettate da tutti, di prevenire e reprimere gli abusi, di mantenere in limiti accettabili la litigiosità e di contribuire alle spese ha portato a sviluppare una mentalità nuova rispetto alla semplice obbedienza a un potere centrale e ha fatto gustare il piacere e i vantaggi dell’autonomia. I “consortes bealeriarum” soci nell’utilizzo del canale irriguo, erano obbligati a sperimentare difficoltà e vantaggi di una gestione comune.
L’esperienza della libertà lascia un gusto a cui è difficile rinunciare e ha prodotto la voglia di estendere l’autogestione a tutti i diversi settori della civile convivenza.
Nei secoli successivi, guerre, invasioni, instabilità politica, epidemie e il progressivo consolidarsi dell’egemonia dei Savoia hanno reso difficile mantenere le conquiste intraviste con gli Statuti quattrocenteschi. Nelle zone montane, la conformazione geografica e la lontananza dal potere centrale hanno però favorito il permanere di forme di gestione collettiva del patrimonio comune.
La vita in montagna è stata possibile, nei secoli passati, proprio grazie al patrimonio dei beni comuni, pascoli, boschi, gerbidi che integravano le scarse produzioni dei minuscoli appezzamenti privati, garantendo la sopravvivenza dei piccoli “particolari”.
A differenza di altre regioni delle Alpi, nelle nostre valli la condizione normale era quella del piccolo proprietario terriero. Rispetto al concetto moderno, vi erano pochi limiti al godimento pieno della proprietà privata, ma contemporaneamente ognuno era consapevole che la propria sopravvivenza dipendeva dall’accesso alle risorse comuni, a un tempo valvola di sfogo per i singoli e risorsa per la collettività. I beni comuni erano considerati propri e difesi strenuamente anche dalle ingerenze del potere centrale.
La mentalità attuale divide la proprietà in pubblica e privata, mentre in passato fra le due sfere vi erano i beni comuni, cioè una forma di proprietà collettiva locale che sarebbe semplicistico ed erroneo classificare come proprietà “pubblica” nel senso attuale del termine
La società di un tempo si basava sulla complementarietà di piccoli appezzamenti privati coltivati intensivamente e di vaste estensioni comuni il cui utilizzo era regolato da norme condivise. Questa saggia mescolanza di ingredienti consentiva di sfruttare capillarmente ogni più piccola risorsa del territorio e nel contempo di garantirne la continuità nel tempo per le future generazioni. La gestione di questo patrimonio collettivo è stata anche una scuola di democrazia partecipata che ha facilitato il lungo e faticoso percorso verso forme di governo meno autoritarie e centralistiche.
Ma i beni comuni non sono solo concetti del passato, ormai ricoperti dalla polvere della storia: sono una questione di estrema attualità che ci coinvolge tutti, come vedremo, se avrete la pazienza di accompagnarmi, nelle prossime tappe di questo breve viaggio.

Scritto nel dicembre 2015, pubblicato su la Guida del 22 gennaio 016

Breve viaggio nei beni comuni 2
Elinor Ostrom era una signora americana morta nel 2012. Non è un personaggio molto conosciuto, nonostante sia stata l’unica donna nella storia a cui è stato assegnato (nel non lontano 2009) il premio Nobel per l’economia. Una “scienza”, quest’ultima, decisamente poco scientifica, ma in compenso molto maschilista, unica fra le discipline premiate a Stoccolma a non annoverare una congrua presenza femminile. Ma quello che ci interessa è la motivazione del prestigioso riconoscimento: gli studi sui beni comuni. Nella sua opera più importante, il saggio Governig the Commons, la studiosa americana si contrappone alle tesi di Garret Hardin che teorizzava il degrado inevitabile delle risorse collettive, condannate dall’incuria dell’uso indiscriminato. Senza l’interesse del proprietario privato, sosteneva Hardin, i beni comuni erano destinati a impoverirsi e disperdersi per l’incuria e gli abusi. La Ostrom riteneva, invece, che le tesi di Hardin fossero errate perché basate sull’equivoco della mancata distinzione fra risorse comuni e beni a libero accesso.
Nel suo saggio dimostra che i gruppi sono capaci di gestire bene le risorse comuni senza distruggerle, ma solo a condizione di rispettare una serie di otto principi che rendono “svantaggiosi” i comportamenti egoistici tendenti al degrado e all’uso individualistico e indiscriminato. La Ostrom elenca e spiega nel dettaglio le norme per una buona gestione del patrimonio collettivo: occorre innanzitutto capire che i beni comuni non sono beni di libero utilizzo incondizionato, servono scelte condivise capaci di prevenire lo sfruttamento eccessivo e gli abusi, sono necessarie sanzioni fissate a priori in grado di risolvere i conflitti in modo equo e rapido, bisogna prevenire le eccessive e ingiustificate disparità fra i membri del gruppo, ci deve essere un controllo sui meccanismi che portano alcune persone a occupare posizioni di comando o di preminenza.
Nel leggere queste “regole” che garantiscono una buona gestione del patrimonio di beni condivisi preservandoli dal degrado, viene spontaneo pensare che questa recente teorizzazione ha trovato, secoli fa, un’applicazione pratica nelle valli alpine, dove Confratrie, Statuti, Ordinati e altri documenti ci tramandano un’immagine di società capace di gestire, preservare e migliorare i beni comuni. Ogni singola “regola” proposta dall’economista americana era concretamente messa in atto, già dal medioevo, nelle valli alpine. L’accesso ai beni era regolato da norme condivise, il patrimonio comune era strenuamente difeso e sentito proprio, gli abusi e i comportamenti individualistici erano severamente sanzionati, efficaci meccanismi regolatori tendevano a impedire un’eccessiva diversificazione di status e reddito fra i componenti della comunità, gli incarichi decisionali e di controllo erano stabiliti con criteri di veloce turnazione e cercando di evitare ogni possibile conflitto d’interessi. Lo studio degli Statuti quattrocenteschi è fondamentale per capire quanto fosse democratica e partecipativa la società di allora e quanto meritasse l’appellativo di “comunità”.
Tornando all’attualità, gli studi della Ostrom dimostrano che i beni comuni possono resistere alle pressioni dell’uso indiscriminato e del degrado solo quando ogni membro della comunità li sente propri e se ne fa carico. In altre parole, la sopravvivenza di acqua, aria pulita, paesaggio, terreni agricoli, usi civici dipende da ognuno di noi ed è affidata all’iniziativa e alla coscienza di ognuno.
Inutile aspettare interventi dall’alto. Al contrario, la storia antica e recente, dal medioevo ai nostri giorni, dai Savoia a Renzi, ci dimostra che le autorità centrali e locali non solo hanno poca considerazione dei beni comuni, ma sono spesso la causa prima della loro progressiva erosione e monetizzazione. Ne abbiamo una prova concreta con le varie leggi di Stabilità, i decreti Sbocca Italia, l’ostruzionismo contro le norme a salvaguardia del suolo agricolo, le privatizzazioni antiche e recenti, la svendita del patrimonio pubblico.
Il saggio dell’economista americana sottolinea come la difesa del patrimonio comune non sia delegabile al potere politico e sia efficace solo quando parte dal basso e coinvolge la coscienza di tutti i cittadini, singoli e “gruppi”: “Non c’è alcuna ragione di credere che i burocrati e i politici, non importa quanto bene intenzionati, siano migliori nel risolvere i problemi rispetto alla gente del posto, che ha il più forte incentivo nel trovare la soluzione giusta”.
A leggere gli Statuti medioevali sembra che questo saggio e moderno concetto l’avessero già capito, in quei tempi lontani, i nostri predecessori e antenati.

Breve viaggio nei beni comuni 3
Il breve viaggio nella storia dei beni comuni, iniziato nel lontano medioevo e arrivato a Stoccolma con il Nobel per l’economia di Elinor Ostrom, ha un epilogo attuale nella meravigliosa Enciclica Laudato sii.
La lettera di papa Francesco ha la grandezza e la semplicità delle epistole del Nuovo Testamento: è necessario e sufficiente leggerla, è scritta per farsi capire, rende superfluo e ingombrante ogni commento. Riesce a trasmettere concetti alti e profondi usando parole comuni. In questo è davvero “evangelica”.
Cristo, secondo l’insuperabile definizione di Pietro, ci ha regalato “parole di vita eterna”, ma lo ha fatto raccontando storie di semi e seminatori, vigne e vignaioli, monete perdute, lampade, aratri, ladri e padroni di casa. Parole e immagini della vita quotidiana di una società rurale. Papa Francesco scrive di biossido di carbonio, biodiversità, acqua sporcata, terra sprecata, paesaggi distrutti ed entra in dettagli ed esempi pratici. Usa con la stessa disinvoltura termini scientifici o tecnici e parole di linguaggio corrente e li condensa in un messaggio semplice e altissimo. Come tutti i grandi testi, l’Enciclica consente livelli diversi di lettura, si fa capire da persone di ogni capacità intellettuale e culturale, ha la semplicità delle parole profonde e l’immediatezza di una missiva famigliare.
Nelle tappe precedenti di questo breve viaggio nei beni comuni avevamo parlato della gestione delle risorse collettive e della necessità di prendersene cura. Ora dobbiamo fare un salto di qualità. Papa Francesco usa il singolare: non parla di beni comuni, ma di bene e di casa comune. Una piccola differenza grammaticale, ma un enorme progresso qualitativo: il singolare che vale per ognuno, che coinvolge in prima persona, ma che diventa universale. I beni comuni sono di qualcuno, il bene comune coinvolge tutti, senza distinzioni.
Un bene comune che assume quindi un significato teologico, perché si identifica con il progetto divino di cura e attenzione per la realizzazione dell’uomo e del creato, ma che si traduce in buone pratiche, in norme semplici e sensate.
Si scende sempre nel concreto, il linguaggio è insieme tecnico e discorsivo, si trasmettono grandi idee usando le parole di ogni giorno. Soprattutto non si sconfina mai nell’ideologia, trappola che cattura spesso le buone intenzioni trasformandole in pensieri chiusi, in steccati, in sterili contrapposizioni. Il suffisso “ismo” tende a rovinare anche le parole più belle e l’ecologia non fa eccezione quando diventa “ecologismo”. Papa Francesco mette più volte in guardia dal rischio di una deriva ecologista fine a se stessa, che dimentica la centralità dell’uomo e introduce una nuova, opposta disarmonia. Parla espressamente di “schizofrenia” ricordando gli eccessi contrari del “paradigma tecnocratico” e di un estremismo ambientalista fine a se stesso.
La tensione è sempre verso l’unione, mai verso la contrapposizione, ma le idee e le parole sono chiare e le prese di posizione sono nette e precise. La scelta di campo, poi, è ripetuta più volte: si deve stare dalla parte dei poveri, degli esclusi. La scelta ambientale diventa scelta sociale ed economica. Il pensiero del Papa è unitario, il quadro è uno solo, anche se le pennellate e le sfumature sono molte e diverse. Si parla di Amazzonia, di OGM, di tecnologia, di effetto serra, di caos urbano, di privatizzazioni, ma l’effetto non è dispersivo, anzi ogni accenno ad argomenti diversi sembra ricondurre allo stesso punto di partenza e di arrivo: il progetto divino nei riguardi dell’uomo e della sua “casa comune”, il diritto di ogni creatura alla felicità, il dovere della cura e della solidarietà, la preoccupazione per le storture, le brutture, le violenze, gli abusi.
Il pensiero espresso è sempre propositivo, un invito al fare insieme che si potrebbe tradurre con un “facciamo”, esortazione in prima persona, che mira al coinvolgimento di tutti partendo dall’impegno personale dello scrivente. Sono temi universali, di grande respiro, ma proposti con esempi e casi particolari, con una costante attenzione ai dettagli che non credo trovi riscontri in analoghi documenti di altri papi e di altre epoche.
Il testo, come ho detto all’inizio, non richiede commenti e spiegazioni, ma piuttosto applicazioni. Occorre meditarlo e soprattutto usarlo come prassi di vita personale e come parametro per esigere azioni concrete da chi regola la vita collettiva.
L’emergenza ambientale riguarda tutti e non si risolve con burocrazia e tecnicismi. In questo il papa è molto chiaro e invita a diffidare delle facile soluzioni tecnologiche. In altre parole, non si risolve il problema dell’inquinamento delle auto aumentando progressivamente il numero che segue la sigla Euro (espediente utile a incrementare le vendite che si è ritorto contro gli stessi fabbricanti) e neppure facendo cassa con multe, ztl e strisce blu. Le scorciatoie tecnologiche sono spesso l’alibi per continuare nelle cattive abitudini e per trasformare in occasione di guadagno per qualcuno i costi e i problemi di molti.
È necessario andare alla sostanza e cambiare il proprio stile di vita, unica “rivoluzione culturale” possibile che garantisce pace e libertà a noi e alle generazioni future. Un lavoro personale, a cui si deve associare un progetto “politico”: occorre “cambiare profondamente gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere”. Uno sforzo che non va visto come un sacrificio, ma come una realizzazione, una promessa e una premessa di felicità: “se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea”.
Lo scritto di papa Francesco è un pozzo molto profondo da cui si potrebbero pescare moltissime riflessioni. Il nostro “breve viaggio nei beni comuni” termina quindi con un invito a leggere l’Enciclica e con la prima frase del capitolo 4: “L’ecologia umana è inseparabile dalla no¬zione di bene comune, un principio che svolge un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale”.
Scritti nel dicembre 2015, pubblicati su la Guida dal 22 gennaio all’11 febbraio 016