Catterina Damiano, favole

L’Ambourné è una borgata alta di Monterosso, in val Grana. Il nome deriva, forse, da quello di una pianta, l’amboùrn, il maggiociondolo, dai bei fiori gialli che nascondono un’anima velenosa. Il legno è flessibile, era usato per costruire racchette da neve o per le parti interne dei pollai. Le galline che dormivano appollaiate su bastoni di amboùrn non erano attaccate da parassiti, il “veleno” contenuto nella pianta fungeva da blando insetticida e le preservava dai noiosi ospiti. Secondo Catterina Damiano, che da giovane ha vissuto nella borgata, il nome deriva invece dal fatto che in tempi lontani, durante una grande nevicata era scomparso un bel gallo. Lo avevano cercato dappertutto, ma non era stato possibile trovarlo da nessuna parte. Quando ormai avevano perso le speranze, lo avevano sentito cantare nel bosco, in una “bourno” di frassini. In tempi in cui anche la perdita di un gallo era una disgrazia per il risicato bilancio famigliare, la storia della fuga e del ritrovamento ormai insperato era rimasta così impressa nella memoria collettiva da dare il nome alla borgata.
L’episodio del gallo, a cui si deve il battesimo del piccolo nucleo abitato, è solo una delle tante storie che ci regala la memoria e la cortesia di Catterina. Su un quaderno a righe ha scritto di sua mano diverse decine di fiabe e racconti, ascoltati spesso dai genitori durante la sua infanzia e capaci di attraversare tutta una lunga vita per arrivare, con una freschezza incredibile, fino a noi. Una testimonianza preziosa per la bellezza dei racconti, per il linguaggio spontaneo, con termini occitani e toponimi, e soprattutto perché ci riporta a tempi ormai lontani (non tanto come numero di anni trascorsi, ma per l’abisso di differenze di mentalità, cultura, stile di vita). Tempi in cui la fantasia dei bambini non era tarpata e impoverita dall’overdose di immagini dei videogiochi e dei mille schermi che ci circondano, ma si costruiva con le parole dei racconti ripetuti nelle stalle. Parole così intense da restare scolpite nella memoria per decenni e rivivere oggi sulle righe di un quaderno.
Alcune storie sono favole note, come il Gatto con gli stivali, molte altre sono invece racconti che io non avevo mai sentito o letto. In ogni caso, anche quelle conosciute, hanno tutte riferimenti locali, sono adattate ai luoghi e alle persone: sono state cioè rielaborate calandole nella realtà delle borgate, dei prati, degli alpeggi. Alcune sono brevissime, altre hanno sviluppo complesso e trama intricata. Protagonisti sono spesso gli animali, domestici e selvatici.
Ne riporto un paio, cercando di cambiare il meno possibile la struttura narrativa e linguistica.

Il lupo al mercato
Una volta c’era un uomo che andava sempre al mercato a Carai e un lupo gli andò vicino e continuava a seguirlo dappertutto, ovunque andasse. L’uomo aveva paura, ma non osava dire niente e dopo aver fatto tutte le commissioni stava rientrando a casa, sempre col pensiero: chissà cosa mi farà questa bestia! Ma non successe nulla e quando l’uomo arrivò a Santa Lucia, davanti alla chiesa, prese un pezzo di carne che aveva comperato e lo diede al lupo dicendogli: “Vai in pace, che Dio ti benedica!”
Il lupo prese il pacco e sparì, e l’uomo non lo rivide più.
Il mercoledì successivo, l’uomo scese di nuovo a Carai al mercato, perché aveva intenzione di comperare una mucca. Per tutta la strada e durante tutti i giri per il mercato per scegliere l’animale una persona lo aveva seguito, senza mai dir nulla. Finalmente l’uomo trovò la mucca che faceva al caso suo, la comprò e stava per pagarla, quando lo sconosciuto si avvicinò e fece sentire la sua voce: “Non preoccuparti, la pago io. Io sono il lupo che tu hai mandato in pace con un pezzo di carne. Ero punito e per liberarmi dall’incantesimo dovevo trovare proprio qualcuno che mi dicesse quelle parole che tu hai detto. Non so come ringraziarti del bene che mi hai fatto…”.
Le fiabe, come le poesie, non tollerano troppo i commenti, e sono inutilmente appesantite da spiegazioni: sono fatte proprio per essere capite da tutti. Credo, però, non sia inutile aggiungere due parole a questa breve storia di apertura mentale e di riconoscenza, altrimenti si rischia di sottovalutarne il messaggio. Ai tempi del racconto non esistevano ancora fumetti e cartoni animati, nessun Lupo Alberto faceva amicizia con le galline e nessuna autorità si sarebbe sognata di proteggere animali feroci e pericolosi, di cui, anzi, era incentivata la caccia. Il lupo, quindi, era giustamente considerato un pericolo e un nemico da combattere, non un bonaccione simpatico da cartone animato. E una mucca era un capitale, anzi “il” capitale, come ci ricorda il piemontese “caviàl”. Il pacchetto di carne, poi, regalato al lupo, era un lusso inusitato. Un gesto, quindi, di una generosità estrema, inaspettato e poco logico, che non pare neppure dettato dalla paura o dalla soddisfazione per lo scampato pericolo, in quanto accompagnato da parole di benedizione. Un regalo fatto senza aspettarsi nulla in cambio, ma che sarà ricompensato addirittura dal denaro necessario per pagare una mucca. Meglio che una vincita alla lotteria dei giorni nostri.
Una favola preziosa, perché, come molte parabole evangeliche, va oltre la normale logica di dare e avere e contraddice l’idea di una società montanara chiusa e un po’ gretta, calcolatrice e incapace di slanci.

La capra Filiberta
Alcune favole contengono all’interno frasi in rima, di facile memorizzazione. È il caso della storia della capra Filiberta, che riesce a spaventare uomini e animali feroci dicendo: “Io sono la capra Filiberta, ogni pelo fa una coperta, se ti avvicini ti leverò il fiato”. La capra era scappata dal padrone che voleva ucciderla, esasperato dal fatto che l’animale non produceva latte nonostante i suoi sforzi di fornirle erba buona, barbabietole e verdure, e si era rifugiata nella tana della volpe spaventando a morte i cuccioli che piangevano disperati. Nonostante tutti i tentativi, né la volpe né il lupo riuscirono ad avere ragione della temibile capretta e della sue parole minacciose. A sloggiarla dal buco e permettere a mamma volpe di riabbracciare i suoi volpacchiotti ci pensò un piccolo grillo zoppo che contrappose alle minacce di Filiberta un’altra rima altrettanto temibile: “Io sono il grillo dalla gamba storta e se non esci viva ti esco morta”. Parole in grado di costringere la capra a uscire restituendo alla volpe il possesso della tana e l’amore dei cuccioli.
La struttura narrativa che ruota intorno a frasi in rima o comunque con una cadenza particolare è antichissima e aveva la funzione di permettere una facile memorizzazione, oltre che un piacevole ascolto. È tipica della trasmissione orale e costituiva un’ossatura fissa attorno alla quale il narratore poteva costruire, volta per volta, le sue personali variazioni, sempre rimanendo fedele alla trama. Meccanismo che troviamo in tutte le culture antiche e che sta alla base, secondo gli studiosi, anche del modo con cui sono arrivati a noi gli stessi racconti evangelici, costruiti nel tempo attorno a raccolte di detti ripetuti a memoria dai testimoni.

Il lupo e la volpe
La storia del lupo e della volpe che vanno a saccheggiare la dispensa di due fratelli della Ruà, Petou e Menico entrando da un finestrino stretto me la raccontava, più di mezzo secolo fa, mio nonno, con altra ambientazione. Davanti alle riserve di burro e formaggi, mentre la volpe si trattiene, il lupo ingordo mangia a crepapelle, tanto da non riuscire più a passare dal finestrino ed essere colto in fragrante e massacrato di botte dai proprietari derubati, di ritorno a casa dalla messa domenicale.
Il racconto prosegue con diversi altri episodi che ruotano tutti intorno alla furbizia della volpe e all’ingenuità del lupo che, a un certo punto, nonostante le botte ricevute, si presta a portare a spalle la compagna che si finge ferita. “Ari, ari tartaiàn, lou malate porto lou san” è la frase in rima ripetuta dalla volpe che serve a illustrare questo passaggio. Il lupo, stremato dallo sforzo non capisce però le parole e la volpe lo rassicura che sta solo recitando “un’Ave Maria per me e un Padre Nostro per te”.
Nello stesso racconto c’è anche l’episodio dei due animali che arrivano sul bordo di un laghetto in cui si riflette la luna piena. Anche questa parte della storia è simile a quella che mi raccontava il nonno, ma qui non si tratta di uno specchio d’acqua qualunque: è “il laghetto delle rane, dove noi dell’Ambourné e quelli di Tetto Bosco d’autunno portavamo la canapa a stare nell’acqua finché era pronta per fare la corda”. La volpe riesce a convincere lo sprovveduto compagno che si tratta di un formaggio e che si possa recuperarlo immergendo la coda nell’acqua. Col freddo di gennaio la coda resta bloccata nel ghiaccio e il povero lupo la tira fuori a fatica e tutta spelacchiata e dolorante. Segue un altro episodio in cui la volpe cerca di convincere il lupo a ricostruirsi la coda usando la canapa e abbrustolendola per ridarle il colore scuro, col relativo prevedibile incendio e un finale con altri guai per il povero lupo. Una storia complessa, in cui la stessa tematica del prevalere dell’astuzia sulla forza bruta è sviluppata in tante scenette successive, con il supporto mnemonico della breve filastrocca in rima.

Il gatto, il cane, il gallo e l’asino
Una volta c’era un gatto che aveva mangiato un salame, ma la padrona lo scoprì e gli diede tante bastonate che la povera bestia sarebbe morta, se non fosse riuscita a scappare. Mentre correva zoppicando per le botte ricevute, il gatto incontrò un cane, anche lui malandato e con le orecchie sanguinanti. “Cosa ti è capitato per essere ridotto in questo stato?” gli chiese. Il cane rispose: “Se sapessi, avevo tanta fame e quando il mio padrone ha munto la mucca ho bevuto un po’ di latte dal secchio, ma lui mi ha visto e mi ha dato tante bastonate che son dovuto scappare, altrimenti mi avrebbe ucciso”.
“Da dove vieni tu?” “Dal tetto Bosco” rispose il cane. “Io vengo dai Marchiòn. E adesso, se sei d’accordo, andiamo insieme a cercare fortuna.”
“Vengo volentieri, per male che ci vada staremo sempre meglio che dai nostri padroni”.
Così si incamminarono, ma fatto un pezzo di strada e arrivati alla Ruà sentirono un gallo cantare disperato. “Cosa ti succede, compare gallo?” gli chiesero i due. “Oh, sapeste cosa mi è successo, avevo fame e ho visto il sacco di granoturco e stavo mangiandone un po’ quando è arrivata la padrona, che mi ha afferrato per la coda e voleva ammazzarmi e farmi bollire. Ma sono riuscito a scappare”.
Il gallo, dopo aver sentito il racconto del cane e del gatto, decise di unirsi ai due colleghi di sventura per cercare miglior fortuna.
Giunti vicino all’Ambourné soprana, il trio vide arrivare un asino molto mal ridotto, anche lui in fuga dalle bastonate del padrone: “Avevo lavorato tutto il giorno a portare fieno, avevo molta fame e ne ho mangiato un po’, ma il padrone mi ha visto e mi ha punito. Se non fossi scappato mi avrebbe ammazzato di botte”.
Sentita la storia simile dei tre compagni, anche l’asino si aggregò alla compagnia e insieme si incamminarono verso il colle dell’Ortica. Arrivati in cima avevano fame e non sapevano dove andare a dormire. Ma il gatto, che aveva unghie buone e ottima vista, salì su un albero e vide una luce, segno di una casa abitata. Arrivati sul posto si accorsero che all’interno c’erano i briganti, che stavano facendo baldoria. Allora il cane si mise ad abbaiare, il gatto a miagolare, il gallo a cantare e l’asino a ragliare, tutti insieme e “di brutto”. Il chiasso era tale che i briganti si spaventarono, credendo che fossero arrivati i carabinieri, e si diedero alla fuga abbandonando la casa piena di leccornie alla fame dei quattro amici.
Dopo aver ben mangiato i quattro decisero di fermarsi in quel bel posto a dormire, ma erano preoccupati per i briganti, che potevano tornare da un momento all’altro. Il gallo allora disse: “Tu, gatto ti metti nel camino spento, i tuoi occhi si confondono con la brace e se qualcuno si avvicina, non ti vede e tu lo graffi. Tu, cane ti metti sotto il tavolo e se qualcuno si siede lo mordi con i tuoi denti aguzzi. Tu, asino ti metti dietro la porta, e se entra qualcuno lo accogli con i tuoi calci potenti. Io me ne starò sull’armadio e in caso di bisogno mi metto a cantare forte.”
Nel frattempo i briganti bisticciavano fra loro per decidere chi mandare a controllare la casa. Alla fine la sorte toccò al più tonto di tutti. Quando entrò, vide che nel camino c’era ancora brace, ma avvicinatosi fu aggredito e graffiato. Cercò rifugio sotto il tavolo, ma “una sega gli segava le gambe”, si avvicinò alla porta ma “dietro l’uscio c’era uno con una mazza di ferro” che lo colpiva. E da sopra l’armadio una voce ripeteva: “Chicchirichì, portatelo qui”. Terrorizzato il brigante tornò dai suoi compari riferendo quello che gli era capitato e tutti insieme si diedero alla fuga, abbandonando per sempre la casa, nella quale i quattro amici si istallarono comodamente.
“E il gallo tutto allegro la mattina uscì a cantare e beccare grilli, il gatto a prendere topi, il cane a mangiare mirtilli e anche qualche topo, l’asino aveva tanta erba buona e dalla gioia si mise a ragliare, e tutti contenti sono stati tranquilli”.
Un lieto fine, quindi, per questa storia di amicizia e di riscatto, in cui i protagonisti fuggono da situazioni dolorose e ingiuste e vanno insieme incontro alla ventura, convinti che nulla potrà essere peggio della situazione precedente e che, con l’aiuto reciproco e con un po’ di furbizia, la vita poteva tornare a sorridere.
Una storia bella per l’ambientazione locale, per i dialoghi dei protagonisti e per il finale di felicità “normale”. Nessun improbabile Principe Azzurro, nessun tesoro favoloso: erba buona per l’asino, topi per il gatto, grilli per il gallo, mirtilli per il cane. Ma l’amicizia e la libertà possono trasformare una normalissima dieta in un banchetto.
Un racconto che è anche un invito a spezzare le catene e fuggire da situazioni di ingiustizia, che ci rassicura che l’evasione è possibile e che spesso siamo noi stessi che ci costruiamo le invisibili sbarre dietro cui ci sentiamo prigionieri.