Ripensare i parchi (2)

La protezione della natura in montagna deve liberarsi di preconcetti ed equivoci e superare l’impostazione, ormai datata, del non utilizzo, della wilderness e della contrapposizione fra ambiente, uomo ed economia. Deve quindi essere completamente ripensata, partendo non più dal punto di vista del cittadino, che usa la montagna come valvola di sfogo e compensazione per lo squallore della quotidianità urbana, ma da quello di chi in montagna ci vive, traendone i mezzi di sussistenza. Anche questa, però, non deve essere una contrapposizione: non c’è nessun conflitto di interessi, tutti traggono giovamento da un’attenzione globale e non puntiforme a tutto l’ambiente e il paesaggio.
Chi davvero protegge la montagna è il piccolo coltivatore (anche non professionale), il piccolo allevatore, il piccolo esercente. Insomma, colui che continua, ostinatamente, a viverci e che è spesso perseguitato da quello stato che dovrebbe sostenerlo e aiutarlo.
Tutte categorie a forte rischio scomparsa (al contrario degli animali selvatici, caprioli, cervi, cinghiali, lupi che proliferano indisturbati, protetti e coccolati con enormi danni all’agricoltura e all’ambiente). I maggiori nemici del montanaro superstite sono la burocrazia, l’accanimento regolatorio in materia igienico-sanitaria, una falsa idea di sicurezza e una politica normativa e fiscale persecutoria.
Tutti dicono di voler combattere la burocrazia e tutti si impegnano, invariabilmente, ad appesantirla e complicarla. E l’unica cosa sicura, con l’attuale concetto di area protetta, è proprio il notevole appesantimento delle pratiche necessarie per la gestione di molti lavori e il relativo rischio di sanzioni.
L’accanimento burocratico uccide i piccoli imprenditori e i privati di buona volontà, giova invece alle grandi imprese, in grado di gestire il carico di norme e balzelli e, magari, di ritagliarsi scorciatoie più o meno legali. È quello che capita per le aziende di trasformazione, per quelle zootecniche, per quelle forestali, settori in cui sopravvivono più facilmente grandi realtà, spesso lontane dal mondo della montagna, capaci di muoversi nella giungla di norme, carte, adempimenti. L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere spirito e cultura delle valli, abitate fin da tempi remoti da piccoli “particolari”, fieri dei loro spazi di libertà e autogestione. Perché la montagna è da sempre spazio di autonomia, rifugio durante le repressioni, incubatrice di resistenze a regimi oppressivi di ogni genere.
Una montagna svuotata di uomini, un’agricoltura senza contadini, un territorio non più presidiato: è una triste prospettiva, ma è anche una realtà che conviene a qualcuno, che ha precisi interessi sugli immensi beni che le nostre valli possono offrire: l’acqua, la legna, gli alpeggi, le potenzialità turistiche, le strutture residenziali, i flussi di traffico. Non è fantapolitica: è un progetto a cui qualcuno sta lavorando concretamente e da lungo tempo. Magari con l’appoggio inconsapevole di onesti ambientalisti.
Per le aziende di piccole dimensioni e per gli agricoltori non professionali la vita in montagna può diventare impossibile. Portare un agnello in auto o un vitellino sul trattore, trasferire gli apiari, tagliare alberi, (tutte attività necessarie nella gestione concreta di una piccola azienda) può comportare multe assurde, la cui unità di misura, dell’ordine delle migliaia di euro, la dice lunga sulla lontananza siderale del legislatore dal mondo della montagna. Addirittura, molte azioni del tutto normali in un’azienda montana, hanno oggi rilevanza “penale”. Chi falsifica i bilanci aziendali se la cava con una sanzione amministrativa, ma chi lavora onestamente e duramente  rischia di continuo di finire nel girone dantesco o kafkiano di una persecuzione insensata.
L’esame dei cambiamenti demografici ci mostra come in tutto il 1900 le alpi occidentali siano stato interessate da un forte esodo che ha causato un gravissimo spopolamento. Negli ultimi anni in Francia il fenomeno non solo si è arrestato, ma c’è stata una notevole inversione di tendenza, mentre da noi la situazione è ancora drammatica. Se volete capire il perché di questa differenza non è necessario consultare testi sociologici o antropologici: andate a fare un giro da quelle parti e vedrete giovani allevatori che vendono i loro formaggi di capra sulla bancarella del mercato, fatti sul gas della cucina e portati nel bagagliaio dell’auto. Ogni paesino ha il suo mercato, il municipio, strade percorribili, servizi. L’ospitalità rurale è favorita e costituisce una buona integrazione al reddito aziendale. Le regole sono poche e chiare, i controlli sono sulla sostanza più che sulla forma e non vessatori: nessuna persona onesta vive col terrore dell’ASL, della forestale, della finanza o dei loro equivalenti d’oltralpe. Se non ci sarà un’inversione di tendenza sul fronte norme-controlli-sanzioni che permetta alle piccole realtà di lavorare serenamente e un concreto impegno nel garantire i servizi essenziali decentrati non è pensabile una duratura ripresa demografica nelle nostre montagne.
La mia perplessità sulla nuova legge in materia di aree protette ha anche altre ragioni, di carattere più generale. Con candore o faccia tosta, esponenti politici promotori dell’allargamento delle zone a parco hanno detto chiaramente che lo scopo, in fondo, è che “così arrivano i soldi dell’Unione Europea”. Insomma, le aree protette sono un modo di attirare finanziamenti, di deviare verso i nostri derelitti paesi un po’ di quel fiume ininterrotto di denaro che da Bruxelles, diviso in mille meandri, va a irrigare le desolate lande periferiche. Sempre più spesso il motivo del “fare”, fra politici e amministratori, è quello di “avere”. Per cui si fa qualcosa, qualsiasi cosa, non importa se sensata, economica, utile o meno, pur di intercettare un rivolo di quella massa fluida di denaro. Nessuno dice mai, però, che quelli sono soldi nostri e nessuno obietta che il fare cose inutili con lo scopo di intercettare finanziamenti è una logica perversa, che ci impoverisce tutti. Una tendenza di “fare per avere” che si è radicata in tutti i settori pubblici e privati: a scuola non si pagano i supplenti, ma si fa a gara a finanziare progetti a volte fantasiosi, strade di ogni ordine e grado sono una sequela ininterrotta di buche, ma in compenso si spendono milioni per trasformare le vie dei centri abitati in gimcane, secondo i dettami di urbanisti spesso più provvisti di fantasia che di senso pratico.
Altro problema delle aree protette è che non proteggono un granché. O meglio, proteggono in modo sbagliato. In un parco può diventare difficile, costoso o impossibile mettere i pannelli solari sul tetto, recintarsi l’orto, costruire una tettoia per la legna, ma non ci sono problemi, invece, per le solite “grandi opere”. La demenziale autostrada di Cuneo attraversa tranquillamente il parco fluviale, ai tempi del progettato traforo del Mercantour l’opera prevista avrebbe interessato due parchi senza troppe difficoltà e nessuno scrupolo. Quattro soldi (sempre nostri…) in opere “compensative” e il gioco è fatto. Insomma, è severamente vietato lasciar fare una corsa al cane, ma per i tir non ci sono problemi.
In conclusione, chi ha a cuore davvero l’ambiente e la montagna non può essere favorevole a questo modo di “proteggerla”. Le nostre valli e i nostri paesi hanno bisogno di persone, famiglie, coltivatori, allevatori, commercianti, esercenti, giovani, donne, bambini, scolari. Soprattutto, non hanno bisogno di altre norme, altri vincoli, altri divieti, altre imposizioni pensate da gente lontana ed estranea.
Un deserto, anche se coperto di alberi e pieno di animali selvatici, sulle nostre alpi non ha proprio nulla di naturale.

Pubblicato su La Guida del 1-05-015