Le storie e la Storia 10,11,12

Dieci
In comuni piccoli, come Pradleves o Moiola, la confratria riuniva tutta la popolazione, mentre in realtà più grandi, come Demonte, nacquero diverse confratrie, ognuna delle quali rappresentava un gruppo di famiglie legate da vincoli di interessi e spesso di parentela. Fin dalla fine del 1500 il paese della valle Stura pare diviso in quattro “comunità” distinte, radunate ognuna attorno a una propria parrocchia e a una propria confratria. Tre di queste parrocchie erano nell’attuale concentrico (San Donato, San Giovanni e S. Maria Maddalena), una nella frazione di Festiona (S. Margherita). A Castelmagno le confratrie erano due, una per la parte alta del paese, con sede a Chiotti, e l’altra per la parte inferiore, con sede al Colletto.
L’appartenenza a una confratria rappresentava il diritto di usare determinati beni comuni, soprattutto pascoli, e significava riconoscersi in una micro-comunità all’interno della Comunità vera e propria, diventata troppo grande per includere tutti gli abitanti del territorio. Demonte contava a fine 1500 circa 2500 abitanti, ma nella seconda metà del Settecento arrivò a toccare le 6000 persone. Castelmagno era meno popolata, ma sparsa su un vasto territorio e le varie borgate facevano da sempre riferimento a due nuclei diversi: Campomolino-Colletto per la parte bassa, Chiappi-Chiotti per quella alta.
Dai documenti di archivio si possono ricavare dati precisi sulla notevole quantità di beni delle diverse confratrie e sulla loro gestione. Dal Catasto del 1669 di Pradleves la Confratria risulta possedere 29 appezzamenti, fra campi, castagneti, prati e canapali, per una superficie totale di 19 giornate. Si trattava del proprietario fondiario di maggiori dimensioni nel paese, sia rispetto ai singoli privati che alla parrocchia (proprietaria di 16 appezzamenti per un totale di 4,4 giornate), sia anche nei confronti della stessa Comunità (che poteva contare solo su 6 appezzamenti di basso valore per un totale di 5,5 giornate piemontesi).
A Demonte in archivio è conservato un resoconto contabile dell’anno 1680 a cui è allegato un Quinternetto dei redditi delle Confratrie, formato da 13 fogli, che attesta un incasso di 427 lire e 9 soldi. Una cifra davvero notevole, superiore alle entrate annue complessive di molti piccoli comuni. D’altra parte, le tre confratrie del paese possedevano una settantina di appezzamenti di terreno di buone dimensioni che erano affittati con aste pubbliche e generavano forti redditi. Lo stesso vale per Moiola, per Aisone, per Castelmagno. Nel comune dell’alta val Grana la sola confratria di S. Ambrogio era proprietaria a inizio 1600 di 60 appezzamenti di terreno.
L’importanza dei beni accumulati nel tempo, abbinata alle caratteristiche di ostinata autonomia incompatibili con la crescente burocratizzazione, rendevano le confratrie allo stesso tempo appetite e mal viste dal potere sabaudo, che già nel corso del 1600 aveva cercato di accaparrarsene l’amministrazione. In realtà, il ducato dei Savoia, come ogni stato assoluto, svolgeva un’attenta funzione di controllo della religiosità popolare, cercando di usarla per i propri scopi e di canalizzarne le potenzialità in una direzione a sé favorevole.
Anche con le autorità religiose non tutto filava liscio e c’erano spesso attriti.
Una ricerca condotta a Peveragno ha messo in luce i ripetuti tentativi dei Vescovi già a partire dal 1583 di controllare e mettere ordine nelle sette confratrie esistenti sul territorio. Tentativi protratti per decenni e destinati ad infrangersi contro il sistematico sabotaggio dei confratelli.  
Vittorio Amedeo II il 19 maggio 1717 emanò un editto che soppresse tutte le Confratrie e fece confluire i loro beni nelle Congregazioni di Carità. Le neonate Congregazioni dovevano redigere bilanci e dipendevano da una Congregazione provinciale, la quale, a sua volta, era controllata da una sede centrale. Sparita del tutto la vocazione egualitaria e la gestione autonoma e un po’ anarchica, le Congregazioni erano diventate dei veri e propri enti assistenziali, perfettamente controllati e integrati nel sistema.
Nella Relazione del Brandizzo di metà Settecento, che nomina decine di Confraternite con relativi doti patrimoniali, non c’è più traccia di queste Confratrie, se non per indicare che si erano trasformate appunto in altri tipi di istituzioni.
Mentre delle Congregazioni di Carità ci resta una documentazione molto dettagliata è quasi impossibile trovare traccia della contabilità relativa alle Confratrie. Gli stessi autori di saggi storici in materia si sono dovuti servire di documentazione “esterna”, cioè non prodotta dalla Confratria stessa, ma trovata presso altre fonti (testamenti, atti notarili etc.) La differenza è dovuta non solo al periodo più recente e alla maggiore quantità di testi d’archivio disponibili a partire dal secolo XVIII, ma alla stessa diversità strutturale delle due associazioni: libera, spontanea e autonoma la prima, perfettamente inserita nel sistema burocratico di controllo del potere sabaudo la seconda.
La Confratria non doveva rendere conto a nessuno se non agli stessi “confratri” e non aveva alcun bisogno di giustificare a livello contabile la propria attività. La buona gestione si concretizzava nel cibo distribuito e condiviso e nella cura del mantenimento dei beni fondiari che rappresentavano il capitale sociale. Le cariche di responsabilità erano di breve durata, almeno a giudicare dai pochi documenti disponibili. Come per sindaci e consiglieri delle Comunità, l’incarico durava generalmente un anno e l’alternanza impediva il degenerare di situazioni negative o la concentrazione del potere in poche mani.
Al contrario, le Congregazioni di Carità erano istituite con atto pubblico e avevano un consiglio in cui erano rappresentate sia le autorità civili che religiose del paese. Erano obbligate a redigere una precisa contabilità e ad annotare ogni uscita con la relativa motivazione.
La storia della trasformazione da Confratrie a Congregazioni è quindi la storia del passaggio dallo spirito (anzi, dallo Spirito) alla carta, dall’essenza alla forma, dall’autogestione al trionfo della burocrazia. Ed è un altro tassello della progressiva opera di smantellamento del concetto di bene comune nei nostri paesi, nelle nostre valli e nelle nostre stesse teste, parallelo alla crescita di un avvolgente sistema burocratico.

Undici
In un Consiglio della Comunità di Castelmagno del maggio 1688, dopo aver discusso del problema delle nevicate eccezionali che avevano impedito le semine e compromesso i raccolti (in alta montagna poteva capitare che nevicate precoci coprissero la segale non ancora mietuta, obbligando a spalare per recuperare il prodotto) si dà lettura di una missiva giunta dal Conte di Cartignano, “signore del luogo”. In essa, il feudatario ordina “di dover annichillire affatto l’abbadia di questo luogo con astenersi d’ogni sollazzo anzi prohibir a tutti li (abitanti) di non mai più esiggere alcun reddito osia regalo portato da detta abbadia…”
È il documento più antico che ho trovato in archivio in cui si parla della Badia di Castelmagno. Nei testi del settecento, invece, i riferimenti sono numerosi e per certi periodi agli Ordinati di Consiglio sono allegati gli elenchi di ufficiali e soldati nominati per l’anno in corso o per quello seguente.
La struttura della Badia aveva caratteristiche e terminologia militare, il corpo era formato da dodici uomini, di cui quattro ufficiali e otto soldati semplici. Capo della Badia era l’Abbà, gli altri ufficiali erano il Luogotenente Abbà, il Sargente Abbà e il Caporale Abbà. Questi ultimi erano stati in precedenza soldati ed erano promossi ufficiali per decreto del Consiglio. Anche l’Abbà era nominato dal Consiglio, ma senza seguire una regola di successione gerarchica: poteva non aver quindi fatto tutta la carriera graduale. Le cariche duravano un anno e i quattro ufficiali al termine del loro periodo uscivano dal corpo. Compito ufficiale della Badia, almeno stando ai testi settecenteschi, era quello di garantire l’ordine pubblico durante i solenni festeggiamenti di S. Magno.
Ma cos’era esattamente la Badia? La risposta non è facile. Più semplice, come capita spesso, dire cosa non era. Non era una carnevalata, anzi, non c’entrava nulla con il Carnevale. Non era una sfilata folcloristica. Non era solo una festa, anche se c’entrava con i festeggiamenti, e neppure una parata in costume, anche se aveva propri rituali e molto probabilmente anche copricapo e divise. Secondo uno studioso era “un’antica celebrazione agricola”, secondo un altro “una festa alpina”. Tutte definizioni in parte vere, ma che non esauriscono le molteplici sfaccettature di una realtà complessa, di cui molti aspetti restano poco conosciuti.
La Badia era una forma di espressione ed aggregazione popolare che aveva importanti funzioni: serviva a incanalare l’irruenza e l’esuberanza dei giovani in modo che non vi fossero eccessi negativi, garantiva il mantenimento dell’ordine in occasione della festa di S. Magno, livellava le differenze sociali ed economiche fra famiglie e individui favorendo la coesione e l’integrazione di tutti, aveva una struttura gerarchica e ruoli precisi, per cui abituava i giovani a collaborare e ad assumere progressivamente incarichi di maggior importanza. Soprattutto, era un momento in cui tutto il paese si ritrovava unito, un’occasione autentica di vita comunitaria. Era anche un prezioso spazio di autonomia ed autogestione, al di fuori del controllo delle gerarchie civili e religiose e come tale, nel corso del tempo, è stata oggetto di ripetuti (e, purtroppo, a volte riusciti) tentativi di “annichilamento”.
La Badia era anche un momento di festa, come si può desumere dall’accenno alla questua finalizzata al pasto condiviso, e uno spazio di gestione autonoma. Cose entrambe poco gradite dal potere di allora, incarnato dalla voce ormai anacronistica del feudatario prima, e da quella ben più efficace del Governatore e dell’Intendente poi.
Certamente, la motivazione che si nascondeva dietro l’ordine di “astenersi da ogni sollazzo” e di “proibire” ogni questua e relativo festeggiamento, era la triste tendenza a voler impedire tutti gli aspetti gioiosi e festosi dell’esistenza, in una visione oscurantista che assimilava ogni divertimento a una colpa. Ma, in realtà, nel colpire questi momenti esteriori di festa, musica, questue e relativi pasti condivisi, si celava il vero intento di limitare l’autonomia e la libera espressione popolare.
Le Badie avevano avuto probabilmente in origine la funzione di vigilare sul rispetto dei beni territoriali e dei bandi campestri, sostituendo una forma di controllo autogestito delle risorse comuni a quello oppressivo di nobili e autorità, interessato unicamente a far cassa con le multe.  In tempi in cui bande di bravi al soldo di signorotti locali imperversavano per le campagne non è difficile pensare che le Comunità organizzassero formazioni paramilitari per controllare il territorio e difenderne i beni. Non ho trovato riscontri su questo particolare compito di tutela dei beni comuni negli Ordinati di Castelmagno, ma è presente in altre Badie, come quella di Sambuco.
La struttura di tipo militare, con soldati e ufficiali ed il compito esplicito di controllare l’ordine pubblico dovevano essere mal visti dal crescente assolutismo del regno sabaudo, che non poteva tollerare simili deleghe di potere ed eccezioni al suo monopolio nell’uso della forza e nelle funzioni di vigilanza. Di certo, anche la Badia di Castelmagno, come quella di Sambuco e di altri paesi delle valli, dovette subire il pugno di ferro del re Vittorio Amedeo II, impegnato a estendere il suo controllo su ogni più decentrata realtà locale. La ricordata soppressione delle Confratrie del Santo Spirito, avvenuta nei diversi paesi delle due valli fra il 1717 e il 1733, fu un duro colpo per questi centri nevralgici di gestione autonoma della vita comunitaria e di riflesso, anche per le Badie, che spesso ne erano collegate ed ospitate.
Il legame fra confratrie e badie pare evidente: entrambe erano organizzazioni di autogestione delle risorse, con struttura al medesimo tempo gerarchia e democratica, con un profondo radicamento nel territorio e una forte insofferenza per la centralizzazione del potere e la progressiva espropriazione dei diritti consuetudinari operata dai Savoia. Le confratrie privilegiavano l’aspetto di gestione e ridistribuzione delle risorse, le badie quello di controllo e mantenimento di un “ordine” necessario al buon funzionamento della vita sociale. Entrambe avevano nel momento di festa e nella ritualità il punto centrale della loro attività. Entrambe hanno subito nel tempo continui attacchi da parte del potere politico e religioso. Le loro funzioni sono state ridimensionate e la loro struttura organizzativa è stata cancellata o trasformata.

Dodici
Badie e Confratrie, come abbiamo visto in precedenza, hanno avuto vita difficile. Già nel periodo della Controriforma, dopo il concilio di Trento del 1563, la chiesa aveva imposto un irrigidimento morale nell’esercizio delle tradizioni del popolo che non fossero propriamente religiose, anche con l’aiuto, tutt’altro che disinteressato, dei Savoia che ne divennero il braccio secolare. Risale forse a questo periodo la connotazione di alcune Badie “nate per la cacciata dei Saraceni”: la rievocazione della cacciata degli invasori infedeli diventava una motivazione inattaccabile e accettabile e permetteva di continuare una tradizione nata forse per ben altri motivi.
A partire dal 1780 la Badia di Castelmagno sembra attraversare un nuovo momento di crisi, tanto che non si trovano più riscontri negli Ordinati e, anzi, si chiede alle autorità la nomina di un distaccamento di soldati che garantisca il servizio d’ordine in occasione della festa di S. Magno. Qualche anno dopo, nel 1786, si torna a parlare di Badia per l’atteggiamento contrario del parroco di S. Anna, don Arneodo, che già aveva avuto attriti con la Comunità col tentativo di spostare la festa di S. Rocco. Probabilmente il poco amato parroco interpreta in maniera restrittiva qualche normativa ecclesiastica e civile di recente emanazione, perché quando i compaesani si rivolgono a un importante prelato originario del posto perché faccia da mediatore per le loro richieste di ripristino dei festeggiamenti, questi si dichiara dispiaciuto di non poter far nulla “contro gli ordini del Sovrano e della stessa Bolla di Roma”. Il Monsignore interpellato, memore probabilmente dell’infanzia al paese, promette però di “scrivere al Sig. Prevosto di non opporsi alla Badia né alli spari e qualora la Comunità potesse ottenere di più da Torino sarebbe sua grandissima soddisfazione”.
La Badia e la solenne celebrazione di S. Magno è per la Comunità di Castelmagno di importanza fondamentale. Lo possiamo sentire dalle stesse parole del sindaco, che nel Consiglio del 20 ottobre 1786 dichiara: “essersi da tempo immemorabile celebrata con singolare apparato e competente musica li diciannove agosto d’ogni anno la festa di San Magno, martire Tebeo, patrono d’esso luogo e protettore dei bestiami”.
Grazie anche alla solennità dei festeggiamenti, alla Badia, agli spari e alla musica, l’afflusso di pubblico era sempre notevole, “col concorso di forestieri e singolarmente dei pastori e margari” e “siccome questo luogo per l’alpestre ed infelice sua situazione trovasi privo di fiere, mercati ed eziandio di commercio… si era sempre in detto giorno deliberato all’asta pubblica il fitto delle alpi comuni”. La festa era quindi l’occasione per avere un grande afflusso di allevatori interessati agli alpeggi comunali e disposti a sborsare le cifre elevate che potevano raggiungere le assegnazioni tramite asta pubblica. Per la comunità di Castelmagno era l’entrata principale, anzi, l’unica vera entrata, che permetteva “il pagamento dei Regi tributi” senza gravare in modo insostenibile sulla popolazione.
Festa, religione ed economia andavano quindi a braccetto, almeno in quell’occasione e il Consiglio non poteva permettere che tutto fosse compromesso per l’atteggiamento oscurantista di un parroco. Per questo, dopo esser ricorso alle vie diplomatiche, scrivendo al Monsignore di casa, aveva dato incarico a un professionista di Torino di procedere per vie legali.
Nelle sue forme recenti le badie rappresentano lo sforzo delle popolazioni di ritrovare e riappropriarsi della propria identità e continuano ad essere momenti importanti nella vita comunitaria di alcuni paesi. Il caso più noto è quello di Sampeyre, la cui Baio è ricchissima di storia e tradizione con una grande varietà di personaggi e tratti caratteristici delle antiche ritualità precristiane legate al ciclo della morte e della rinascita. Altri comuni stanno cercando di ripercorrere le tracce della propria Badia. In queste operazioni credo sia importante andare oltre gli aspetti di folklore e ritrovare il nucleo vero della tradizione: il senso di comunità, la voglia di far festa, la condivisione, la difesa della propria autonomia, del territorio e dei beni comuni.
E, giunto alla fine di queste dodici brevi chiacchierate, mi pare che sia proprio quello dei beni comuni il filo che possa tenere insieme tutte queste parole di adesso e di allora.
Prima di andarmene, vorrei ringraziare amministratori e impiegati dei diversi comuni che mi hanno accolto durante le ricerche e coi quali è nato un rapporto di amicizia, Diego Deidda per il suo incredibile lavoro su Pradleves e tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi.
Chi scrive è sempre ospite del lettore, verso cui ha obbligo di riconoscenza.

Articoli pubblicati su La Guida dal 9 gennaio al 13 marzo 2015 in undici articoli con titoli diversi