Una premessa lunga da far paura

Una premessa lunga da far paura
Questo breve scritto non c’entra nulla con Charlie e i drammatici fatti di Parigi. Nasce molto prima, ancora alla fine dello scorso millennio, con la dittatura degli ayatollah in Iran, le immagini dei burqa dall’Afghanistan, le prime donne velate guardate quasi con curiosità nelle strade dei nostri paesi, l’onda crescente di un fondamentalismo alimentato dall’idiozia guerriera dell’occidente che metteva radici in tutto il mondo.
Per me, anche il disagio crescente di non riuscire a parlarne o a scriverne. Il peccato grave del non detto, che credo peggiore del rischio di dire cose sbagliate.
Scrivo per l’unico scopo di condividere con amici idee e sensazioni, e a volte è difficile farlo uscendo dal coro. Soprattutto se si tratta di un coro di pensieri non conformisti, non allineati al rumore di fondo, espressione di libertà e autenticità, e capace, nell’insieme, di realizzare buone armonie.
Un giornale, anche piccolo, libero e autonomo come il Granello, ha una sua linea di pensiero data dalla sommatoria delle mille idee di chi ci collabora e, proprio per questa sua dimensione condivisa, può essere difficile esprimere idee che si sentono “diverse”. Non è autocensura: in un coro che canta bene spiace fare la voce stonata, e allora si sta zitti.
È quello che mi è capitato da anni per la questione dell’Islam e in generale delle religioni.
Uno dei pochi pensieri fissi che mi hanno accompagnato per tutta la vita è la consapevolezza di quanto sia necessaria una fede e quanto sia pericolosa ogni religione.
“La fede ti libera, la religione ti lega”, dice un vecchio in una delle prime pagine del primo racconto che mi è capitato di scrivere, ancora nello scorso millennio.
E’ un pensiero grezzo, ma radicato in me fin da quando, dopo cinque anni, ho varcato al contrario il portone del seminario vescovile di Cuneo, in cui ero entrato in quinta elementare. Esperienza che non rimpiango e che mi ha insegnato tante cose buone, ma che mi ha lasciato, indelebile, la paura e la diffidenza per le religioni, nostre e altrui
Ho provato sulla mia pelle quanto sia difficile “lasciare” una religione che ti è stata inculcata fin da piccolo (con le migliori intenzioni e senza troppi danni collaterali, nel mio caso) in anni in cui non si possiede ancora autonomia di giudizio e senza l’antidoto del dubbio sistematico e della totale libertà di coscienza.
Ho sempre pensato che il più grosso dispiacere che abbiamo dato al Creatore sia quello di aver creato delle religioni, rubandogli il copyright. Il famoso peccato imperdonabile contro lo Spirito. Un po’ come i furti di identità dell’era informatica, in cui qualcuno si sostituisce a te e sfrutta il tuo nome, la tua reputazione, la tua persona per scopi disonesti, con il risultato di coinvolgerti nella truffa, di associare la tua persona al reato.
Così abbiamo fatto con Dio creando le varie religioni, nate per mantenere più agevolmente il controllo sociale, per dare peso a norme igieniche, per tener sottomessa la donna e per molti altri motivi, alcuni dei quali positivi, altri inconfessabili e ignobili. Col solito sistema collaterale e speculare di premi e di castighi, di deterrenza e di incentivi.
Dio, la cui pazienza è davvero infinita, a un certo punto deve essersi stancato delle mille immagini con cui sporcavamo il suo volto, ha trovato un uomo onesto, un certo Abramo e gli detto: “Vai, vattene dalla tua terra”. Non era un incentivo al vagabondaggio, era un invito a lasciare le idee preconcette, le certezze, i suoi dei rassicuranti, insomma la religione, per l’aleatorietà di una ricerca e di una speranza.
Abramo si è fidato ed è partito, guadagnandosi una vita nomade, qualche metro quadro di terra sua alla fine del percorso, un’esile discendenza e una riconoscenza perenne da parte di tutti coloro che conoscono la fatica della fede. Dopo di lui, però, i suoi successori ci sono ricascati in fretta, ricostruendo templi, leggi e religione non appena trovata una sede adatta.
Dio allora ci ha riprovato con Mosé e con i quarant’anni di deserto, periodo che pensava sufficiente a far capire la necessità e la bellezza di una fede sempre precaria, basata sulla fiducia e sul rapporto diretto col Creatore. Ma niente da fare, non appena trovata una terra promessa, prima ancora di costruirsi case in muratura, gli uomini ostinati hanno ricostruito la religione e la loro “immagine” di Dio.
Alla fine, e questo mi pare abbia assonanza con una certa parabola evangelica, Dio, esasperato, ha mandato suo figlio. Immagine potente per dire che è intervenuto senza intermediari e ambasciatori, mettendo in gioco direttamente la sua persona, anzi, molto di più, suo “figlio”. Lo scopo di questa straordinaria missione era duplice: imparare per esperienza diretta quant’è bello, faticoso e a volte terribile vivere in questo piccolo pianeta sperso nel suo universo e farci vedere il suo vero volto, una volta per tutte. Cancellando tutte quelle false immagini, quei furti di identità che chiamiamo “religioni”.
L’uomo di cui aveva preso a prestito vestiti e calzari, che noi conosciamo come Gesù, ha parlato di molte cose, usando vocaboli di vita quotidiana e contadina: semi, pecore, sale, farina, ladri, fichi improduttivi e monete smarrite. Ma le parole più importanti, quelle per cui aveva affrontato il lungo viaggio e una fine scomoda, le ha regalate a una donna in cambio di un po’ d’acqua (Giovanni 4,21-24).
Come per ogni discorso fondamentale, il senso è nascosto dietro una frase apparentemente banale, in risposta a una domanda apparentemente superficiale: la scelta del luogo in cui adorare Dio. “Non su questa montagna né a Gerusalemme” (oggi aggiungerebbe forse: non a Roma né alla Mecca) non è certo indicazione geografica, ma l’obbligo del superamento delle pastoie religiose per arrivare a Dio “in spirito e verità”, come Lui stesso vuole.
Parole che sono la vera causa della fine tragica della storia. Non c’era davvero bisogno di essere profeti per capire che la lotta contro il potere religioso era ed è un suicidio e che Cristo ne sarebbe uscito per una porta davvero stretta.
L’uomo Gesù lo capisce in fretta e in Marco 8 passa bruscamente dall’ottimismo della stagione dei miracoli alla consapevolezza di quanto si deve patire per vivere di fede e non di religione. Il racconto cambia toni, atmosfera e linguaggio, come se fosse scritto da due mani diverse, la buona novella prende i colori della tragedia.
Dopo la sua morte, come nelle puntate precedenti, i discepoli hanno impiegato relativamente poco tempo a barattare la fede in cambio di una rassicurante religione, a imporre dogmi e a trasformarsi da perseguitati in persecutori, abbracciando, ricambiati, il potere in quel momento in carica.
Tutto questo lungo e strampalato excursus, una mia personale e molto opinabile versione banalizzata di quel che chiamiamo “storia sacra”, mescolata a ricordi altrettanto personali di esperienze ormai lontane di seminari giovanili, è solo una lunga premessa per spiegare la mia inguaribile fobia nei confronti delle religioni.
Una premessa che, come mi capita spesso, si è mangiata lo spazio per scrivere qualcosa di sensato sul tema di cui volevo parlare. Meglio così: in fondo, ho menato il can per l’aia per la consapevolezza di quanto sia delicato il discorso e di come sia facile scivolare sugli opposti versanti di un ebete irenismo o di una contrapposizione sterile e violenta.
Meglio usare le poche righe che mi restano per parlare di paura.
Come forse si è capito, le religioni mi fanno paura. Tutte. In questo momento, per evidenti e contingenti motivi, non solo legati al terrorismo e alla follia del califfato globale, le paure si addensano sul versante dell’Islam. Ma non è paura nata oggi e non è motivata solo dai rischi di guerra e dalla follia degli eventi che stiamo vivendo.
Come capita spesso, la violenza nasce da una paura inconfessata e le stesse religioni fanno paura perché hanno paura. Hanno cioè paura di perdere ogni loro potere se non fanno paura. Per restare in casa nostra, il no all’eutanasia ha queste stesse radici (ma è meglio non addentrarsi nell’ennesima divagazione).
Ogni religione ha sempre avuto paura della gioia, della donna, del sesso e della libertà, della risata, anzi, del sorriso e di chi si ostina a ragionare con la propria testa. L’Islam (anche se non è politicamente corretto dirlo) nasce col peccato originale della violenza e deve ancora trovare un suo illuminismo, il coraggio di affrontare l’analisi critica dei suoi testi sacri e di non bestemmiare il primo nome di Allah, il “misericordioso”.
Ma restando nel campo delle “mie” paure, ne voglio elencare ancora un paio.
Mi fa paura un sistema che mescola il versante religioso con quello politico, creando le più terribili dittature, quelle teocrazie il cui nome è per me la peggior bestemmia possibile: dare a Dio il volto dell’umano potere o giustificare il proprio potere nascondendolo dietro il nome di Dio: il Got mit uns scritto sui cannoni di ogni epoca e nazione.
Mi fa paura anche la nostra paura di dare alle cose il loro nome. Quando c’è di mezzo la religione si tende spesso a girare la testa dall’altra, considerandola una sorta di attenuante che giustifica ogni tipo di comportamento. Non guardiamo, non vediamo. Tolleriamo cose intollerabili, accettiamo cose inaccettabili.
Mi spaventa la paura di dire che i diritti dell’uomo e della donna, fra cui, basilare, quello di vestirsi e di svestirsi come si vuole, di esprimere le proprie idee, di avere rapporti con quella metà del mondo che è l’altro sesso, stanno mille anni luce prima di qualsiasi pretesa di qualsiasi religione. E che, proprio per questo, lo stato deve essere “ferocemente” laico.
Laicità che deve essere pretesa, in primis, da tutti quelli che hanno una fede e magari anche una religione (che in forma attenuata può non fare troppo male e magari avere pure una qualche utilità, in fondo tutto questo discorso è solo una questione di termini).
Il mondo che chiamiamo progressista, solidale, di sinistra, pacifista, democratico o con qualsiasi altra etichetta ci piaccia, è prigioniero di stereotipi di buonismo, tipici spesso di chi si sente abbastanza lontano dal problema da considerarsi tutto sommato al sicuro e potersi permettere il lusso del sorriso distaccato. Chi è meno garantito, meno intellettuale, costretto a una promiscuità non gradita, come il popolo delle periferie, scivola nell’abbraccio interessato dei Bossi, dei Calderoli, dei Le Pen, dei Farage e dei Salvini di turno.
Mi fa paura un mondo che separa “ciò che Dio ha unito”, cioè il maschio e la femmina, due universi la cui armonica complementarietà è alla base di ogni cosa buona, di ogni equilibrio. Oggi milioni di donne sono prigioniere di veli e condizionamenti, milioni di uomini sono confinati nel loro universo maschile, squilibrato, triste e generatore di infinite forme di violenza.
Ci vuole davvero poco per capire che le radici del terrorismo sono antropologiche.
Mi fa paura la facilità con cui potremmo perdere, in un prossimo futuro, quel capitale di tolleranza e di libertà pagato a caro prezzo da chi ci ha preceduto. Esattamente come stiamo perdendo sicurezze economiche, diritti acquisiti, garanzie sociali e la stessa democrazia. Tutte cose date per scontate e che stanno sciogliendosi più velocemente dei ghiacciai alpini.
Unico antidoto alla paura mi pare sia la fiducia, anzi, la fede.
E con questa parola, l’unica che non fa paura e che è capace di guarire la paura, si chiude il cerchio ed è meglio finire il discorso.

Scritto il 31 gennaio 2015, pubblicato sul Granello di febbraio