Le storie e la Storia 7,8,9

Sette
La tensione fra “beni comuni” e “beni della Comunità” percorre i secoli e lascia abbondanti tracce nei documenti d’archivio. Da una parte il diritto consuetudinario di usare boschi e pascoli come indispensabile complemento ai pochi appezzamenti privati, dall’altra la necessità delle Comunità, spinte dai debiti, dalle guerre, dalla fiscalità ducale e più tardi, direttamente obbligate dalla burocrazia sabauda, di far rendere le proprie risorse, vendendole, affittandole o tassandole. Strette fra spese, esigenze contabili e pressioni esercitate dagli Intendenti Generali, le Comunità erano obbligate a far cassa attingendo dall’unico serbatoio disponibile: il proprio stesso territorio.
Gli esempi sono tantissimi e li troviamo in tutti i paesi esaminati: percorrendo le tracce dei documenti d’archivio ci rendiamo conto della progressiva limitazione del capitale condiviso di beni comuni a favore di uno sfruttamento “monetario” di boschi e pascoli da parte delle amministrazioni.
Ora sono tempi diversi, ma le cose stanno esattamente come allora. Con la differenza che abbiamo ormai alle spalle secoli di questo lavoro di smantellamento dei diritti, per cui il capitale disponibile si è drasticamente ridotto e la percezione stessa del bene comune sembra essersi persa. Tutti facciamo attenzione agli spiccioli che abbiamo in tasca, difendiamo con porte blindate e allarmi il nostro ristretto angolo di universo, ma spesso non ci rendiamo neppure conto di quello che, giorno per giorno, anno per anno, ci viene portato via da sotto gli occhi distratti. In modo, in genere del tutto legale anche se sicuramente immorale (anche perché le leggi le fanno spesso quelli stessi che operano attivamente per la distruzione quotidiana del patrimonio collettivo, la morale, per fortuna, risiede in angoli della coscienza non ancora soggetti a regolamentazione).
Lo studio della storia dei nostri paesi e delle nostre valli ci può aiutare a capire che la contrapposizione fra pubblico e privato non è invenzione dei tempi attuali e, forse, ci può anche suggerire possibili modelli di convivenza fra i due mondi contrapposti. Non necessariamente, infatti, la tutela della proprietà privata deve andare a scapito dei beni collettivi, e viceversa. La società montana di un tempo può essere un esempio di come questi due valori, bene comune e bene privato, potessero rispettarsi e integrarsi a vicenda, con vantaggi per tutti.
Uno dei termini in assoluto più frequenti che troviamo negli archivi è il sostantivo “particolari” che potremmo tradurre con proprietari terrieri. La parola non esaurisce però tutti i significati, che vanno molto oltre il semplice possesso di beni fondiari. Il particolare è colui che possiede almeno una particella, cioè un appezzamento di terreno o un fabbricato, e come tale è registrato a Catasto. Questo “allibramento” nei Registri fondiari non è solo un ulteriore carico fiscale, ma è anche il segnale del raggiungimento di uno status di proprietario, per quanto piccolo.
L’economia di autosufficienza vedeva nella possibilità di sostentamento proprio e della famiglia la prima importante soglia di riconoscimento sociale e la proprietà di una “pezza” di terra era l’obiettivo primario e la condizione per raggiungere tale traguardo.
Per molti aspetti, solo il “particolare” godeva della pienezza dei diritti civili e della possibilità di partecipare alle decisioni condivise sulla gestione dei beni comuni. Il possesso di beni propri, anche piccoli, era quindi la chiave di accesso anche per godere in pieno dei beni collettivi ed essere riconosciuti a pieno titolo cittadini.
La società di un tempo si basava sulla complementarietà di piccoli appezzamenti privati coltivati intensivamente e di vaste estensioni comuni il cui utilizzo era regolato da norme condivise. Se non l’uso, almeno la gestione e le decisioni in merito ai beni comuni, erano riservate agli aventi diritto, per nascita, residenza e possesso di beni propri.
L’idea di proprietario terriero fa pensare, al giorno d’oggi, a un soggetto benestante, mentre nei documenti d’archivio al sostantivo “particolari” si accompagna di frequente l’aggettivo “poveri”. La nostra montagna era costituita in gran parte di “poveri particolari”, cioè piccoli proprietari che faticavano a raggiungere una condizione di autosufficienza alimentare e a pagare le tasse, alla mercé degli imprevisti climatici, dell’instabilità politica, della rapacità del fisco, delle ricorrenti epidemie. Situazione comune a quasi tutti e dignitosa, a differenza della condizione di “miserabili”, magari altrettanto diffusa, ma che sottintendeva non tanto la povertà, ma la mancanza di beni fondiari, anche minimi.
I due termini, poveri e miserabili, che oggi spesso consideriamo sinonimi, rappresentavano allora due realtà ben distinte. La povertà era una condizione frequente, comune alla grande maggioranza della popolazione e compatibile col possesso di beni fondiari, mentre la miseria era determinata non tanto dalla carenza di mezzi di sussistenza, ma dalla mancanza di appezzamenti di terreno propri.
Questa discriminante si può notare leggendo con attenzione gli elenchi dei poveri e dei miserabili stilati dai diversi comuni nella seconda metà del Settecento per giustificare l’esenzione dalla tassa sul sale e dal cotizzo personale. Fra i miserabili di Castelmagno è sempre classificato Francesco Millo, il messo della Comunità, dotato di regolare stipendio, ma privo di proprietà, mentre troviamo nelle classi meno povere tantissimi piccoli particolari, costretti a mendicare il sostentamento. È proprio fra le classi (relativamente e teoricamente) meno povere che troviamo la maggior parte delle persone costrette all’emigrazione invernale per poter sopravvivere.
L’impressione netta è che la distinzione fra le due parole sia dovuta non a un maggior grado di indigenza che identifica i “miserabili”, ma all’assenza totale di proprietà fondiarie. E che, per contro, il possesso di minime superfici coltivabili, cioè il raggiungimento della condizione di “particolari”, non allontanasse dallo spettro della fame e delle difficoltà economiche.

Otto
La parola “particolare” è spesso usata nei verbali dei Consigli di Comunità col valore che daremmo oggi al termine “cittadino”, cioè abitante di un luogo con relativi diritti e doveri. In questo senso si contrappone a “forestieri”, appartenenti ad altra Comunità e quindi esclusi dal godimento dei beni comuni.
Questo significato dimostra indirettamente come la condizione di piccolo proprietario fosse diffusa, tanto da consentire l’uso della parola come fosse sinonimo di “abitante”. Nel resoconto statistico fornito dal comune di Castelmagno nel 1778 si scrive che i 1071 abitanti “attendono tutti alla coltura dei beni … la più parte come proprietari”.
La condizione di proprietario, anche se piccolo, era quindi la norma.
L’aggettivo “forestieri” associato al sostantivo “particolari” ha spesso una connotazione negativa o escludente, soprattutto quando questi ultimi entrano in competizione territoriale con gli abitanti di un paese. La prima risposta alla crescita demografica è il tentativo di espansione dei territori coltivati, ma nel severo ambiente montano questa si scontrava con limiti geografici e fisici. La tentazione quindi di espandersi a spese dei confinanti era forte e questo spiega le secolari liti territoriali.
Per questo, nei verbali di Consiglio i “particolari forestieri” sono spesso in cattiva luce. Negli Ordinati di Castelmagno ci si lamenta dei forestieri di Pradleves che rubano la legna nel territorio di Castelmagno e in quelli di Pradleves si denunciano i tagli abusivi e il pascolo dei particolari di Castelmagno nei propri confini.  E Aisone contro Vinadio, Vinadio contro Aisone, Rittana contro Gaiola, Monterosso contro Pradleves, perfino la lontana Caraglio contro Castelmagno e viceversa.  Trecento anni di costose cause legali fra quest’ultima e Demonte per il diritto di passaggio nel vallone dell’Arma. Per non parlare della lite quasi millenaria fra Castelmagno e Celle Macra per i pascoli del vallone di Narbona, con relativi episodi di fucilate e attentati a colpi di pietre rotolanti e le cifre folli spese per processi, avvocati e procuratori. I pacifici abitanti del paese dell’alta val Grana, esasperati dalle prevaricazioni e dalla situazione senza sbocchi pensarono, nel febbraio del 1685, addirittura di ricorrere al Papa e di inviargli una pergamena per spiegare le loro ragioni e chiamarlo a giudice supremo del contenzioso. Diedero quindi mandato a sindaco e segretario “per trasferirsi ove sia bisogno” al fine di compilare e “inviare a Roma da Sua Santità il proposto rotolo in buona forma.”
Il forestiero non aveva in genere diritto ad usare i beni comuni e quando lo faceva doveva pagare cifre più alte. Nei testi che istituiscono le tasse sul bestiame, dopo le diverse tariffe per bovini, ovini e caprini sta spesso scritto: “e ai forestieri il doppio”.
Adesso discutiamo di cittadinanza agli immigrati, di ius sanguinis e ius soli. Allora i problemi erano esattamente identici, anche se la scala territoriale era ridotta. I forestieri arrivavano dal comune o dalla valle vicina, i più esotici dalla Provenza, dal Delfinato o dalla Lombardia. La ricerca di un lavoro era anche a quei tempi la molla di molti spostamenti. Ma la vera discriminante era, allora come adesso, fra nascita e residenza.
Chi veniva ad abitare a Pradleves, a Castelmagno, a Demonte aveva diritto di far parte a pieno titolo della Comunità, a godere della distribuzione del cibo della Confratria, e soprattutto a partecipare alla gestione dei beni comuni?
La società di un tempo delle valli non era affatto statica e chiusa come si potrebbe immaginare, c’era un continuo rimescolamento e spostamento di abitanti, spesso dovuto a questioni di sopravvivenza. Le attività artigianali e proto-industriali (lavorazione della lana e canapa, attività estrattive, la metallurgia a Pradleves, la costruzione dei forti sabaudi in valle Stura) attiravano manodopera che poteva venire anche da paesi lontani, soprattutto nel caso di lavori che richiedevano una forte specializzazione.
Come assorbivano le comunità questi cambiamenti, come erano integrati i nuovi venuti nell’economia locale, quale parte poteva avere nel loro inserimento l’acquisto e il possesso di beni fondiari? Sono tutte domande a cui non è facile dare risposta.
La connotazione negativa del termine “forestiero” spariva (allora come adesso) solo nel caso in cui il soggetto in questione portasse alla Comunità risorse economiche. In particolare, erano benvenuti pastori e allevatori “forestieri” in grado di offrire cifre elevate per accaparrarsi gli alpeggi. Questo valeva per Vinadio, per Demonte, ma soprattutto per un comune come Castelmagno, ricco di importanti risorse pascolive che non erano però sempre alla portata delle tasche degli allevatori locali, tutti piccoli “particolari” con un basso numero di animali propri.
Per questo le aste per l’assegnazione delle “montagne” si tenevano il 19 agosto, in occasione della festa solenne di S. Magno, protettore del bestiame. I festeggiamenti, la musica, la Badia, gli spari di mortaretti erano anche in funzione di attirare gli allevatori delle valli vicine, come si desume chiaramente dalla lettura degli Ordinati della Comunità che protestano vivacemente e si oppongono con una costosa causa legale ai tentativi di parroci e autorità civili di ridimensionare alcuni aspetti della manifestazione.
I soldi dei pastori “forestieri” di Entracque e Demonte erano assolutamente indispensabili per le casse della Comunità di Castelmagno e anche allora il denaro non aveva problemi di nascita o residenza.

Nove
Badie e Confratrie sono due termini che si prestano facilmente a confusioni e generalizzazioni. Il primo richiama alla mente la Baio di Sampeyre, o quelle meno famose di Sambuco, di Limone o di altri paesi che cercano di rinnovarne il ricordo e sovente è associata alle feste di carnevale, alle maschere, alle sfilate in costume. La seconda parola è sconosciuta a molti o ritenuta sinonimo di confraternita. Interpretazioni entrambe errate o fuorvianti: i due termini hanno avuto una parte importante nella storia delle nostre terre fin da tempi remoti e sono legati alla gestione delle risorse comuni.
Le Confratrie o Confrarie “dello Spirito Santo” sorsero in tempi molti antichi, di cui negli archivi esaminati non restano memorie scritte. La questione delle loro origini è tuttora considerata insolubile, ma diversi studi confermano la loro importanza già nella fase di fondazione di città e paesi nuovi (le villae novae). Molto probabilmente giocarono un ruolo decisivo anche per la nascita della stessa Cuneo e di Mondovì.
Oltre alle incertezze sulle origini (comunque remote) è anche difficile tentarne una corretta definizione. Secondo alcuni studiosi si tratta di “istituzioni che provvedono alla distribuzione dei beni in natura derivanti dalla gestione di risorse collettive”. La parola “istituzioni”, che viene spontaneo usare, mi pare però poco appropriata, in quanto non si tratta di organismi “istituiti”, cioè fondati da una qualche autorità civile o religiosa, ma piuttosto organizzazioni o associazioni nate spontaneamente per esigenze di autogestione delle risorse. Questa autonomia gestionale e la lontananza da vincoli istituzionali anzi, può essere considerata la principale caratteristica delle Confratrie, che ne ha decretato la nascita, l’importanza e la fine e che le differenzia da analoghe forme di associazionismo devozionale o assistenziale.
Gli scopi sociali di queste organizzazioni erano il corretto utilizzo dei beni collettivi, la loro conservazione nel tempo e la ridistribuzione delle risorse. Sovente gli studi hanno sottolineato soprattutto o esclusivamente quest’ultimo aspetto, mettendo l’accento sulle funzioni assistenziali e di carità e trasformandole in opere pie, col rischio di snaturarne l’essenza.
Mentre la loro nascita è avvolta, per ora, nel mistero, è certa la data finale della loro storia secolare: furono soppresse nel 1717 e sostituite dalle Congregazioni di Carità.
Fu proprio la loro caratteristica di ostinata autonomia, la gestione svincolata sia dalle autorità civili che religiose a spingere i Savoia a sopprimere queste associazioni difficilmente controllabili per sostituirle con le “innocue” e più gestibili Congregazioni di Carità.
Le Confratrie possedevano molti beni, ricevuti in legato, eredità o donazione, e li gestivano in modo da ricavarne un reddito da destinarsi alle attività sociali. La gestione poteva essere diretta, come nel caso del possesso di forni da pane, ma più spesso si configurava come una sorta di affitto o col pagamento di un canone.
La Confratria possedeva sempre un immobile, la “Casa della Confratria”, fulcro di un’attività intensa che aveva il suo momento chiave nel pasto condiviso durante la festa di Pentecoste. Questo rituale era il momento più importante per rinforzare i vincoli di solidarietà fra i soci, mantenendo così nella comunità un elevato livello di coesione necessaria alla buona gestione e al controllo delle risorse. Nei piccoli centri l’unità di tutti gli abitanti, ricchi e poveri, sottolineata da questi momenti chiave di condivisione, era determinante per affrontare con successo la difficile quotidianità e per assorbire le novità senza traumi.
Erano infatti soprattutto le “novità” ad avere un effetto che poteva essere destabilizzante sulla comunità. Fra queste, oltre ad eventi esterni, come la permanenza di truppe e i fatti bellici, c’era l’introduzione di attività artigianali o protoindustriali che potevano sconvolgere gli equilibri interni della società. È il caso della lavorazione della lana, della tessitura della canapa, della filatura della strazza di seta, dell’industria metallurgica a Pradleves. È il caso, anche dell’emigrazione temporanea che apriva gli sguardi su mondi ed idee diverse.
Il periodico riunirsi tutti a condividere il cibo era quindi un rituale che serviva a ritrovare coesione e armonia, a diminuire o almeno rendere tollerabili le disuguaglianze, a fare gli indispensabili aggiustamenti a quella “morale comunitaria” che regolava la vita nei paesi.
È importante notare che non si trattava solo di assistenza e non era rivolta solo ai poveri, ma la distribuzione del pasto condiviso interessava tutti, indipendentemente dal grado di ricchezza o di bisogno. La somministrazione del cibo nella solennità di Pentecoste, in genere una minestra di ceci e cereali, avveniva “indistincte” e “promiscue”, cioè senza differenze fra ricchi e miserabili.
Prima ancora di essere società di mutuo soccorso, le confratrie erano quindi importanti per lo sviluppo armonico della vita comunitaria e l’attenta gestione delle risorse disponibili. Erano anche uno dei tanti “meccanismi livellatori” in grado di ridurre o assorbire le eccessive differenze di reddito e di ricchezza fondiaria fra le famiglie componenti la comunità. Chi aveva maggiori disponibilità economiche si assumeva ruoli di prestigio, ma onerosi, che richiedevano tempo e denaro, che venivano così messi a disposizione della collettività. È in fondo lo stesso meccanismo che ritroviamo nella gerarchia delle varie Badie e, fino a tempi recenti, nei ruoli di massari per le diverse festività.
Le Confratrie sono per definizione “dello Spirito Santo” e avevano come momento centrale il pasto condiviso nella festività di Pentecoste, che cade in tarda primavera. L’attività assistenziale, (non unica e neppure prioritaria, ma comunque da non trascurare) era particolarmente importante in questo momento dell’anno, quando le scorte erano consumate ed erano ancora lontane le nuove produzioni. Ancora nel 1787, la Congregazione di carità di Castelmagno operava “per il sovvenimento dei poveri massimamente in tempo di primavera distribuendo granaglie”.
Il tempo della Pentecoste era anche il momento della maggior crisi alimentare per chi non possedeva risorse sufficienti ed era l’occasione in cui la condivisione del pasto diventava una reale forma di aiuto per i più poveri. Garantire a tutti il superamento di questo ultimo momento difficile prima della nuova stagione produttiva era importante per la vita della comunità e la Confratria diventava il mezzo concreto di questo aiuto.
Fra l’altro, la forma originaria di pasto condiviso fra tutti i membri della comunità era meno discriminante della semplice distribuzione di viveri ai miserabili che ne prese il posto in tempi successivi.