Stangata d’agosto

Le stangate, da quando posso ricordare, arrivano sempre d’agosto.
Mettere le mani nelle tasche degli italiani, evidentemente, è più facile quando sono in costume da bagno o in bermuda, con la testa distratta e surriscaldata e l’ansia di cancellare stanchezza e frustrazioni accumulate nell’intero anno in pochi giorni di sudata vacanza.
Ma la stangata di ferragosto 2011 ha qualcosa di diverso e di molto più preoccupante rispetto a quelle che l’hanno preceduta.  
E non solo per impatto e dimensioni.
Il termine usato è “manovra”, che sa di automezzi pesanti o tentativi di posteggio e implica comunque attenzione, senso della misura e capacità di guida. Tutte doti che paiono estranee a chi ha il compito di reggere il timone nella tempesta e continua a snocciolare giornalmente ipotesi diverse e fantasiose per racimolare cifre ogni volta differenti – venti, quaranta, settanta, cento miliardi: chi offre di più?-. Il tutto condito dai soliti reciproci insulti in salsa populista e demagogica. Insomma, una manovra che ricorda quegli automobilisti imbranati che per parcheggiare vanno mille volte avanti e indietro per poi lasciare l’auto di traverso sulle strisce.
E fin qui si tratta di ordinaria amministrazione in questa Italia abituata a navigare a vista fra le secche di continue emergenze, abbonata alla provvisorietà cronica, alle sempiterne una tantum e alla inflessibile regolarità delle eccezioni.
La novità che rende questa manovra estiva diversa dalle solite e che ritengo gravissima è contenuta nel documento presentato il 4 agosto alle “parti sociali” in cui si chiede di “avviare subito…un grande piano di privatizzazioni e liberalizzazioni” e  “la dismissione del patrimonio pubblico”
Cioè esattamente il contrario di quello che il popolo italiano ha chiaramente espresso nei referendum di giugno. Preoccupa e fa tristezza un governo che invece di farsi interprete della volontà popolare, come avviene in ogni democrazia, la ignora bellamente e si comporta come se non fosse successo niente. Come se i cittadini, in una formidabile espressione di partecipazione attiva e consapevole, non avessero ribadito chiaramente la volontà di non lasciare ai capricci e alle speculazioni del mercato la gestione e la proprietà dei beni comuni.
Vale la pena di esaminare le singole parole del testo virgolettato e di tradurle in linguaggio corrente. Dismettere vuol dire sbarazzarsi, vendere, anzi, svendere, in tempi in cui, per il gioco della domanda e dell’offerta, i prezzi sono da saldi e realizzi. Trucchetto contabile che dura ormai da anni e che ha portato lo stato a vivere non di rendita ma di svendita, tappando le innumerevoli falle di una gestione poco accorta con la cessione continua di beni e servizi. Come quei figli sciagurati che sperperano in poco tempo il patrimonio familiare accumulato col sacrificio di generazioni.
Forse non ce ne rendiamo conto, ma ogni volta che lo stato (s)vende un bene ai privati, ognuno di noi perde qualcosa, diventa più povero. E sarà costretto a pagare ai nuovi proprietari quello che un tempo era anche suo.
Altra parola che merita riflessione è “parti sociali” che per il governo significa Confindustria, banche e sindacati confederali allineati. Viene da chiedersi: e la gente? E i movimenti, le associazioni, i giovani, i precari, i disoccupati, i pensionati, gli immigrati. Insomma: e tutti noi? Non contiamo proprio nulla? Non siamo “parti sociali”?
Non entro nel merito dei particolari tecnici della stangata, sia per la loro fluidità, sia per non rovinare a me stesso e a chi legge questi ultimi giorni di vacanza.
La manovra, nell’insieme, è la solita brodaglia di tagli, ticket, risparmi. Colpisce come di consueto i lavoratori dipendenti, le pensioni, le fasce medie e basse e salvaguarda i grandi evasori e gli speculatori. Soprattutto, è una nuova, brusca frenata a un sistema economico che non vuole saperne di ripartire. Un intervento controproducente: come se si pensasse di risolvere i problemi di un’automobile che stenta a muoversi e acquistare velocità tirando il freno a mano.
Il motore dell’economia è la domanda, ha dimostrato Keynes, e per sostenerla occorre favorire l’occupazione, non certo tagliare posti di lavoro. Lo stato, secondo l’economista inglese, deve agire in maniera anticiclica, risparmiando quando le vacche sono grasse per reinvestire durante la recessione, quando i privati non possono farlo. La sua teoria, applicata coraggiosamente da Roosevelt, ha consentito all’America di ripartire dopo la grande crisi del 29 e di diventare una superpotenza economica. Mentre l’Inghilterra di Giorgio V, affrontando la crisi con le armi dei licenziamenti e dei tagli di spesa si è condannata a una lunga parabola discendente.
Una ricetta sbagliata, oltre che dolorosa e indigesta, quindi, quella proposta dal Governo, destinata a rendere ancor più drammatica la disoccupazione, ad estendere la precarietà, a rovinare la vita di molti.
Ma, senza tirare in ballo i maestri dell’economia e le loro diverse teorie, mi pare che il difetto di questa manovra sia soprattutto nel negare la speranza, nella visione miope di chi guarda solo all’oggi e ipoteca il domani, nello spreco intollerabile e insensato di risorse e talenti giovanili condannati a intristire nel limbo del futuro negato e della precarietà a vita. Una manovra di respiro corto, di orizzonte limitato, che cerca di risolvere i malanni con le stesse medicine che li hanno causati. Una manovra che deprimerà ulteriormente l’economia pesando soprattutto sulle classi medio-basse già duramente provate dalle crescenti difficoltà quotidiane.
E, ciliegina sulla torta, il previsto massacro dei piccoli comuni, delle province e in genere degli enti locali. Provvedimento stupido e inutile, visto che un qualsiasi Scilipoti costa di più di tutti gli amministratori dei comuni montani del cuneese messi insieme.
Niente male, per un esecutivo dominato da una forza politica che faceva del localismo e del federalismo la sua bandiera e la sua ragione sociale.

Cervasca, 17 agosto 2011                lele
Pubblicata su La Guida del 26-8-011