Alpitour

“No Alpitour? Ahi, ahi, ahi!”: i più vecchi ricorderanno certamente la fortunata pubblicità che molti anni fa ha contribuito a fare della società cuneese il maggior tour operator italiano.
Lo slogan adesso assume i toni di una tragica beffa per i trecento dipendenti cuneesi del gruppo. Martedì scorso, una mail dal tono dimesso e colloquiale li ha avvisati che il loro futuro prossimo sarebbe cambiato all’improvviso, facendosi cupo e incerto. Le prime parole erano quasi affettuose: “caro collega”, ma il seguito era una vera e propria coltellata: cancellazione della sede di Cuneo e conseguente trasferimento coatto a Torino. Una sorta di deportazione, camuffata nei diversi comunicati dai soliti giri di parole falsamente rassicuranti: miglioramento, efficacia, opportunità, sviluppo…  
La firma era quella di Winteler, amministratore delegato del gruppo, un tipo dall’aria simpatica e gioviale che si fa dare del tu e chiamare familiarmente Danny anche dall’ultimo assunto e di recente ha attraversato l’Atlantico a vela con Soldini e compagni. Uno che sa il fatto suo, un bocconiano di sicure capacità manageriali, che in un periodo di crisi nera per il settore viaggi è riuscito a chiudere l’annata con un forte utile (e relativo dividendo milionario alla casa madre).
L’Alpitour va bene, quindi, fa cassa anche in tempi in cui i diretti concorrenti sono costretti a fallire o ad accumulare debiti. Ha manager capaci, buoni dirigenti, dipendenti affiatati e motivati.
Qual è la logica, allora, che sta dietro questa decisione improvvisa e traumatica? Sembra proprio l’ennesima conferma di quella legge non scritta che pare in vigore in Italia per cui quando una cosa funziona, va bene, dà buoni risultati, la si deve immediatamente eliminare o snaturare. Per contro, sembra impossibile scrollarsi di dosso incapaci, profittatori e parassiti che si attaccano come zecche al loro posto da cui continuano a far danni in eterno.
Da tempo Alpitour è in vendita. Exor, la SPA della galassia Agnelli che ha sostituito Ifil nel gioco di scatole cinesi della moderna finanza, ha deciso di sbarazzarsene. Il Presidente John Elkann ha ribadito recentemente l’intenzione di “fare pulizia” liberandosi dei “piccoli” investimenti, come appunto Alpitour. La citazione testuale è di un articolo dell’ultimo Affari e Finanza, ma la notizia risale a diversi mesi fa. Lo scopo dichiarato è di concentrarsi sul businnes principale, ma una motivazione non certo secondaria è l’esigenza di fare cassa in un momento difficile per il gruppo. Acquirente probabile, uno di quei fondi di investimento dai nomi strani, che svolazzano nel cielo tempestoso dell’economia reale in cerca di possibili prede.
Il problema è che, al giorno d’oggi, si vendono bene solo le aziende snelle, quelle cioè capaci di far soldi col minor numero possibile di dipendenti. I lavoratori, soprattutto quelli con gli obsoleti contratti a tempo indeterminato, sono considerati non più come un capitale prezioso o una risorsa, ma come una zavorra. Un costo fisso da abbattere. Il valore di mercato di una società, in questa logica assurda, è inversamente proporzionale al numero di occupati fissi.
Allora diventa improvvisamente chiaro il vero motivo dell’operazione e l’accorpamento assume le sue vere vesti di un licenziamento occulto di massa. Molti dipendenti, infatti, impossibilitati a viaggiare per motivi geografici, famigliari, personali, saranno costretti a dare le dimissioni. Risultato: decine di lavoratori in meno, una bella cura dimagrante a costo zero, in grado di rendere ancor più appetibile l’azienda per un eventuale compratore.
Sconcerta vedere fino a che punto in questa moderna economia malata di finanza si annulli lo spazio per gli uomini e per le donne, per le loro vite, le loro storie, le speranze, i progetti. I dipendenti non sono neppure più vacche da mungere: sono numeri.
Il lavoro è un fattore di produzione con cui l’imprenditore gioca senza ricordare che dietro i grafici e le cifre ci sono vite umane, famiglie, persone. Gente con cui non vale neppur più la pena discutere: si comunicano le decisioni a cose apparentemente fatte, via mail, aggiungendo al danno la beffa delle parole amichevoli e degli immancabili cordiali saluti finali.  
Sorprende e sconcerta anche vedere l’arrendevolezza di alcuni amministratori, capaci, almeno in un primo momento, solo di frasi rassegnate: “sono decisioni aziendali dove non possiamo interferire”… “l’abbiamo già persa dieci anni fa”. Una reazione così blanda che avrà di certo rassicurato Winteler, in missione esplorativa martedì mattina dal sindaco di Cuneo per saggiare l’ambiente e capire il livello della risposta degli enti locali, da cui pretenderebbe addirittura un aiuto “per minimizzare i disagi”.
Fra l’altro non è difficile vedere un disegno preciso nel fatto di comunicare la notizia come una decisione già presa, addirittura come cosa già avvenuta. Passata in giudicato, si direbbe in termini giuridici. Nella mail, nei comunicati, ma anche nei titoli dei giornali si usa l’indicativo presente, tempo e modo della certezza, non dell’eventualità. Il contratto d’affitto del nuovo edificio, si sottolinea, è già stato firmato e per un periodo lunghissimo (tredici anni nella moderna economia sono un’era geologica).
Già fatto, impossibile tornare indietro. Ve lo diciamo, bontà nostra, con un certo anticipo. In maniera, s’intende, da minimizzare i disagi.
Il miglior modo per far passare senza troppi intoppi una decisione inaccettabile e gravissima è di darla per scontata, presentarla come cosa fatta, inevitabile, ineluttabile. Non proporla come una possibilità, un qualcosa su cui si possano esprimere pareri, su cui si possa trattare.
E’ una tecnica di comunicazione, una strategia studiata a tavolino da persone esperte in questi rami della psicologia applicata. I lavoratori e le autorità non dovrebbero cadere, quindi, nella trappola della rassegnazione, ma studiare risposte adeguate e altrettanto efficaci. Nel 2005 la pronta reazione di cittadini, amministratori e dipendenti riuscì a bloccare in buona parte un analogo tentativo di spostamento della ditta.
Lavorare lontano da casa aggiunge il tempo e lo stress del trasferimento al già pesante orario di lavoro e sottrae alla busta paga una bella fetta della remunerazione effettiva. Soprattutto ti ruba la vita, gli spazi sacri per le relazioni personali, per la famiglia, gli amici. Può rendere l’esistenza una giostra infernale. E non è certo funzionale alla produttività, visto che il dipendente arriva sul posto di lavoro già spremuto e demotivato.
Per l’ambiente, poi, è un disastro assoluto, perché costringe a quella sarabanda infernale di mezzi in movimento a cui possiamo assistere quotidianamente attorno alle nostre città nelle ore di inizio e fine dei periodi lavorativi. Un folle agitarsi che non produce niente, se non costi, ingorghi, inquinamento, incidenti, stress, stanchezza. La distanza fra abitazione e luogo di lavoro è andata crescendo in modo esponenziale in questi anni a causa anche all’uso perverso del concetto di “flessibilità”, oltre che per gli effetti di norme, di tagli indiscriminati e della crisi economica.
Impegnarsi per tutelare il posto di lavoro non lontano dal luogo di residenza sarebbe, per il legislatore, il modo più efficace per garantire la qualità ambientale senza ricorrere a rottamazioni forzate e all’imposizione di sempre nuove tasse occulte sotto forma di revisioni, bollini e strisce blu. Ne trarrebbe beneficio la salute, il tono dell’umore, l’ambiente, la qualità della vita e, in fondo, anche l’economia.
Difendere il posto di lavoro a Cuneo per i trecento dipendenti Alpitour significa anche dire no a una visione dell’economia fatta solo di cifre, finanza, speculazioni e incapace di mettere al centro l’uomo. Significa far qualcosa di concreto per il territorio, che non si salva certo con slogan, ampolle e proclami (e neppure con stravaganti corse ciclistiche), ma con l’attenzione ai problemi reali delle persone.
L’alba di questo terzo millennio mi pare spesso coincidere col tramonto della solidarietà. L’io ha sostituito il noi, ognuno cerca vie d’uscita individuali, sembriamo aver dimenticato il significato della parola “insieme”.
E ognuno, nel momento della difficoltà, si scopre terribilmente solo e indifeso.
Forse è per questo che la dirigenza Alpitour si è permessa l’uso del modo indicativo e del tempo presente (o addirittura passato, se pensiamo al contratto già firmato) dando la cosa per fatta.
Sarebbe bello se tutti insieme, lavoratori, sindacati, autorità, cittadini, riuscissimo a ricordare loro che in fondo, noi cuneesi, siamo pur sempre i pronipoti di quei Galli che gli storici latini definivano “durum genus”: gente che (quando serve) sa essere dura.
Con cui è meglio non dare nulla per scontato.
Ma, senza scomodare Plinio o Tito Livio, basterebbe il piemontese bugianen a indicare la nostra tendenza a non farci sradicare facilmente.

Cervasca, 16 settembre 011                                  lele viola
Pubblicato su La Guida del 23-9-011