Un “Bel paese”

“Un paese ci vuole…Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Sono parole di Cesare Pavese, dal libro La luna e i falò, pubblicato nel 1950, poco prima della tragica morte, e sembrano quasi un testamento spirituale del grande scrittore di langa.
Ho avuto la fortuna di passare tutte le fasi della mia vita in paesi, la Borgo degli anni sessanta, Demonte a fine millennio e ora Cervasca. Mi sono sempre sentito in debito con il “paese”, quell’insieme di persone che si conoscono, si salutano, si danno del tu chiamandosi per nome, non sono indifferenti uno all’altro, non si nascondono dietro il falso steccato della privacy, usano la lingua locale, cercano di resistere con le armi del buon senso e della testardaggine ai pressanti tentativi di omologazione e normalizzazione. Persone, insomma, che magari senza rendersene conto, si sentono una comunità e non numeri inseriti in anonime statistiche.
Viviamo a Cervasca da oltre un quarto di secolo, e pur non avendo radici strettamente locali ci siamo sempre sentiti accolti, integrati e “a casa nostra”. Nonostante la vicinanza con Cuneo, Cervasca è ancora un vero paese, nel senso nobile del termine, ricco anche di attività culturali, di associazioni che si prendono cura delle persone e del territorio, con scuole efficienti, negozi, bar e ristoranti accoglienti e una bella biblioteca.
Anche per questo mi ha addolorato e preoccupato la notizia della decisione del consiglio comunale di cambiare la destinazione d’uso di un terreno con fabbricato agricolo per consentire la costruzione di una grande struttura sanitaria privata. Decisione che mi pare affrettata, non nata da una riflessione condivisa, non preparata da incontri e discussioni, come dovrebbe essere una scelta di tale portata, capace di stravolgere le caratteristiche di un vasto territorio.
“Cambio di destinazione d’uso” è una frase, in perfetto linguaggio burocratico, che è servita spesso da bacchetta magica per moltiplicare il valore di un appezzamento agricolo. Alla base di tutto c’è il fatto che il valore di un terreno, come di un qualsiasi altro bene economico, non sfugge alla legge della domanda e dell’offerta, e quindi cresce in funzione inversa della disponibilità. Un terreno agricolo vale relativamente poco, un appezzamento edificabile, per fini residenziali, artigianali o commerciali può valere enormemente di più. Con questo sistema, in passato, persone con poca coscienza si sono fatte i soldi, a spese del paesaggio, dell’ambiente e del bene comune.
Certo, cambiare destinazione d’uso di molti vecchi fabbricati rurali è una necessità e una questione di buon senso. Molte case rurali delle nostre basse valli erano in passato di tipo unitario, cioè accoglievano sotto lo stesso tetto uomini e animali. Ogni famiglia possedeva bestiame, e stalla e fienile erano adiacenti a cucina e stanze. Le condizioni di vita sono cambiate ed è giusto poter recuperare questi fabbricati per scopi abitativi, permanenti o temporanei.
Altro discorso è invece cambiare uso di una grande struttura relativamente recente stravolgendo la “destinazione” di una vasta area, priva di opere di urbanizzazione. In zona agricola può costruire solo il coltivatore professionale per esigenze connesse con la coltivazione del fondo. Il fabbricato è e deve essere funzionale all’attività agricola.

Da oltre vent’anni mi è capitato di scrivere contro la progressiva cementificazione del nostro splendido territorio. Mi rendo conto che è da sempre un mio “chiodo fisso” e che rischio di eccedere davvero con le ripetizioni. Voglio piuttosto terminare da dov’ero partito, dalla frase di Pavese e dalla fortuna di vivere in un paese, quel microcosmo che ritengo il miglior compromesso possibile fra il caos e l’anonimato della città e la solitudine forzata di abitazioni isolate.
Spesso non ce ne rendiamo conto, ma viviamo in posti bellissimi, con una storia e una geografia davvero uniche e un tessuto sociale che si è conservato integro e solidale attraverso le vicissitudini dei secoli. Ne siamo eredi e custodi, tocca a ognuno di noi conservarlo bene.
Non entro neppure nel merito del grande discorso della difesa della sanità pubblica, di cui proprio questo giornale si è fatto di recente portavoce con molti articoli di vero spessore. Tutti ci rendiamo conto della progressiva erosione di questo fondamentale diritto e bene comune. “Venta nen avene damanca” è spesso il commento sconsolato che sottolinea quanto pesi, in certe situazioni, non poter più contare su un servizio sanitario pubblico efficiente e tempestivo.
Una clinica comporta un grande via vai di automezzi e persone, richiede parcheggi, viabilità, infrastrutture. Se poi andrà in porto (e io spero proprio di no) il progetto del nuovo ospedale “pubblico costruito da privati” a Confreria (uno dei tanti ossimori a cui ci stiamo abituando) l’insieme delle due strutture sanitarie stravolgerà davvero quella bella frazione e il nostro paese.
“Un paese ci vuole”, scriveva Cesare Pavese, tocca a noi non permettere che diventi una triste e anonima periferia di una qualsiasi città di questa Italia che un tempo chiamavano, guarda caso, Bel Paese.

Pubblicato su La Guida del 15-6-023