La regola del tre

“Viviamo in tempi difficili” è frase che vale per ogni epoca, generazione e situazione, ma le prospettive che abbiamo davanti fanno davvero pensare a scenari paurosi di violenza, miseria e degrado. Dopo la pandemia è arrivata la guerra, e un conflitto iniziato dalla follia di un dittatore viene alimentato da mercanti di armi stranieri e nostrani e da chi ha convenienza a militarizzare la società.
Come capita spesso, la storia sembra ripetersi e quasi a farlo apposta, a un secolo esatto dalla marcia su Roma sono tornati allo scoperto vecchi e nuovi fascisti: una delle massime cariche dello Stato si vanta di tenere in casa un busto di Mussolini, il ministro dell’Istruzione sembra trovar normale lo squadrismo di strada e bacchetta la preside che ne denuncia il pericolo.
E, a proposito di pericolo, non c’è neppure bisogno di commentare le geniali parole del Ministro degli Interni a seguito delle decine di morti del naufragio di Crotone: “la disperazione non può mai giustificare viaggi pericolosi”. Come se la causa delle quotidiane stragi in mare fosse la colpevole imprudenza degli stessi annegati.
Invece di reagire con fermezza ed efficacia a quest’involuzione autoritaria, quella che definiamo “sinistra” si stava sciogliendo fra personalismi, narcisismi, interessi, indecisione, vecchi e nuovi rancori. Il Pidi sembrava diventato abbreviazione di partito deludente, più che di partito democratico. Ho usato il verbo al passato, perché spero di cuore che la nuova segretaria sappia finalmente portare aria e mentalità diverse. Ne abbiamo davvero tutti bisogno, anche chi come me, considera il “partito” solo un participio passato del verbo partire.
Nel frattempo, la nostra vecchia terra pare volerci avvertire che sta stancandosi dei nostri abusi e delle nostre prepotenze e ci avvisa di non dare per scontate stagioni, piogge e giuste temperature (e di conseguenza, produzioni agricole abbondanti, dispense piene e tavole imbandite).
In questa situazione di incombente tragedia, sembra davvero fuori luogo parlare di argomenti personali, spirituali o di vita quotidiana, ma io credo che serva comunque, e che non sia una scappatoia, un rifugiarsi nel privato, un nascondere la testa nella sabbia. È, anzi, un modo per conservare speranza e forza, utili a ogni forma di resistenza, soprattutto quando i tempi si faranno davvero difficili. E anche, magari, per mettere le basi per quei cambiamenti che tutti stiamo aspettando. Perché ogni cambiamento procede dall’interno all’esterno e assume concretezza sociale, politica e istituzionale solo per sommatoria di scelte e comportamenti individuali.
Per questo vorrei usare un po’ di spazio per condividere una “regola” di vita che per me è stata ed è importante: la regola del tre. Il copyright è di Beppe Marasso, pacifista storico e anima del MIR-Movimento non violento, che nel lontano 1989 aveva organizzato il primo campo estivo nella borgata dove vivevamo allora. Non ricordo se l’avesse esplicitata, in quell’occasione, come regola di vita, o se fosse semplicemente il modo di dividere il tempo e organizzare le giornate, ma da allora è stata per me una costante che mi ha accompagnato lungo gli anni. Una “regula”, nel senso originario e benedettino del termine, una sorta di guida per orientarsi o di ringhiera a cui appoggiarsi. Una regola che, come tutte le regole, si deve basare sulla libera scelta e non assumere i colori tristi dell’obbligo o dell’auto-imposizione. Una ricetta semplice, fatta di tre soli ingredienti: il lavoro manuale, il lavoro intellettuale e la festa, ma che per me è stata compagna fedele ed efficace nelle diverse fasi dell’esistenza.
La riuscita dell’impasto nasce, come sempre, dal giusto equilibrio dei tre componenti. Equilibrio dinamico, che non si può imprigionare in numeri e proporzioni fisse. Il lavoro manuale, che comprende anche lo spostarsi a piedi e in bici, è forse il fattore principale, senza il quale il prodotto rischia di annullarsi. La pensava così anche la Grand’Anima di Gandhi, che ne ricorda l’obbligo imprescindibile per ogni persona sana. Nella sua raccolta di scritti Villaggio e autonomia lo mette alla base di ogni pretesa di autogoverno e di libertà. E dice anche che chi si produce da sé ciò che serve per vivere avrà una grande soddisfazione e scoprirà presto di poter fare a meno di molte cose che prima riteneva indispensabili.
Io sono convinto che chi lavora per libera scelta con le proprie mani non possa fare a meno di pensare con la propria testa e che la capacità di autonomia (letteralmente “darsi le proprie leggi”) sia in funzione del tentativo di una corretta autosufficienza.
Lavorare con le mani (e scrivere rientra in questa categoria) mette anche in moto il cervello e deve andare insieme al lavoro intellettuale. Leggere, studiare, curiosare, fare ricerca, informarsi, interessarsi, chiedersi il perché, approfondire, dubitare, mettere in discussione. E, soprattutto, prendersi il tempo di ascoltare. Essere capaci di un ascolto “accogliente”, avere sempre la disponibilità di cambiare idea.
La terza dimensione del nostro spazio è quella che chiamiamo “festa”, rischiando di ridurre la sua immagine a fiera di paese. Ma nella parola “festa” c’è ben altro, c’è dentro la bellezza e l’importanza della relazione, dell’amicizia, dello stare e sentirsi insieme. C’è la saggia alternanza di lavoro e riposo, di solitudine e di compagnia, di voci e di silenzio. C’è la capacità di attesa e di sforzo, di concentrazione e di distrazione, di tensione e rilassamento. C’è l’attenzione di non farsi mangiare la vita dal lavoro, dalla carriera, dal bisogno di risultati, dalla considerazione altrui. C’è il diritto di tutti alla gioia, a un’esistenza piena e felice e c’è la constatazione che felicità è termine plurale, che non si può declinare da soli. Premessa di ogni gioia è quindi la giustizia e la condivisione.
Festa è anche conseguenza di soddisfazione (non a caso le feste della tradizione contadina seguono mietitura, vendemmia, fieno in cascina e raccolti al riparo) e ripaga (e richiede) un precedente sforzo, manuale e intellettuale. Ogni forma di pigrizia è l’esatto contrario della festa e genera solo noia, che col tempo diventa esistenziale e si trasforma in depressione.
Festa è anche gratitudine e consapevolezza che qualsiasi risultato raggiunto è sempre, per buona parte, un regalo (di antenati, maestri, amici, passanti, sconosciuti e di quel formidabile compagno di viaggio che chiamiamo Dio).
Noi cattolici abbiamo ridotto il comandamento biblico “ricordati del giorno di shabbat” nel precetto di santificare le feste facendo un giro in chiesa a “piè ‘n toc ed messa” prima dell’abbuffata domenicale. Gli stessi ebrei non avevano capito il senso dell’esortazione divina e avevano trasformato un invito liberante e gioioso in rigidi divieti e dettagliate norme. Un malinteso contro cui si scaglia il giovane Cristo, che in Marco esordisce proprio ricordando che ogni legge è fatta per l’uomo e non viceversa.
La regola del tre è stata per me una buona norma di vita e di questo sono debitore all’amico Beppe. E credo che la grandezza di Gandhi sia stata anche nell’averci insegnato che i cambiamenti politici più importanti passano attraverso piccole, progressive scelte personali e devono poggiare su una solida base spirituale. Solo così acquistano una forza immensa, capace di fare davvero la “rivoluzione”. Cosa che, alla fine, aveva capito anche il meno pacifico Che Guevara, che ammetteva che “una rivoluzione che non cambia l’intimo degli uomini non è una vera rivoluzione”.
Churchill non l’aveva invece capito e definiva con disprezzo il piccolo avvocato indiano “un fachiro mezzo nudo”. Pochi anni dopo questa offensiva definizione, anche grazie alla tenacia e alla fede di quel “fachiro” poco vestito, l’Impero Britannico doveva rassegnarsi a perdere la sua perla più preziosa, l’India, e a iniziare quel lento declino che non è ancora finito oggi.

Pubblicato sul Granello di senape del marzo 2023