Autosufficienza 9: semi di speranza

Una volta si divideva l’attività produttiva in tre settori, con nomi che ricordano un po’ quelli delle ere geologiche: primario, secondario e terziario, a indicare rispettivamente agricoltura, industria e servizi. Oggi la classificazione ha perso buona parte del senso originario: una larga fetta di agricoltura sta diventando un’industria e una parte consistente del settore industriale vive sulle spalle dell’agricoltura. E, visto che siamo nel terzo millennio, anche il terziario nei suoi mille aspetti (servizi, burocrazia, comunicazione, informatica), tende a invadere pesantemente il campo (in senso figurato, ma anche proprio) dell’agricoltura. Così il settore che un tempo era “primario” da tutti i punti di vista (fatturato, numero degli addetti, considerazione sociale) stretto fra i due ingombranti vicini, si trova ridimensionato e spaesato.
A fine Ottocento, nella nascente Italia il 70% dei lavoratori erano contadini e la grossa parte del fatturato nazionale arrivava dai campi. Ancora il censimento del 1951 ci dava l’ultima immagine di un paese agricolo, con il 42% dei lavoratori nel settore primario. Quello che è successo dopo è sotto gli occhi di tutti, con il boom economico, l’illusione industriale, l’urbanizzazione selvaggia, l’abbandono dei territori considerati “marginali”, l’emigrazione interna, l’avanzata inesorabile del terziario. A occuparsi di darci da mangiare sono rimasti in pochi, e la fetta di PIL del settore primario si aggira intorno a un deprimente 2%.
Ma forse il peggio è alle spalle e, insieme a seri motivi di preoccupazione per alcune tendenze della moderna agricoltura, si intravvedono semi di speranza e di consolazione. Il primo aspetto positivo è il più immateriale, ma, forse, il più importate: la considerazione sociale. In questo senso, credo che gli anni 60-70 del secolo scorso siano stati i peggiori. A svuotare campagne e valli, più ancora delle sirene delle fabbriche, con la sicurezza dello stipendio a fine mese contrapposta all’incertezza dei soldini raggranellati con vitelli e castagne, è stata proprio la bassa considerazione, ai limiti dell’aperto disprezzo, di un “mondo dei vinti” di cui si rifiutavano e disconoscevano tutti i valori. Piemontese e occitano erano dialetti di cui vergognarsi, cultura, architettura e tradizioni erano al più elementi di un folklore da festa paesana da guardare con sufficienza e commiserazione. Chi poteva, scappava, barattando case in pietra, prati e alberi con l’alloggetto in condominio, la mucca con la Vespa e poi con la Seicento, la dura libertà dei campi con la catena di montaggio.
Adesso, almeno dal punto di vista della considerazione sociale, le cose vanno molto meglio e la scelta di vivere di agricoltura o allevamento non è più vista come un mestiere da poveracci o da perdenti, anzi, è spesso considerata un valore aggiunto e una professione che richiede coraggio, capacità e imprenditorialità. Insomma, si è passati dal considerare la vita in campagna e in montagna una vergogna da “bunumàs” a sentimenti di invidia e ammirazione: una scelta che sta diventando addirittura “di moda”.
Al di là degli aspetti più superficiali e di marketing, questo cambiamento è molto positivo, soprattutto se interiorizzato: avere l’intima convinzione di stare facendo qualcosa di buono, di importante, e anche di giustamente valutato dalla comunità è fondamentale per superare le inevitabili difficoltà pratiche della vita e del lavoro in campagna e montagna.
Un secondo aspetto che sicuramente è molto migliorato negli ultimi anni è la sensibilità per i problemi ambientali e l’attenzione per evitare di avvelenare terreno, acqua, aria e alimenti. Anche da questo punto di vista le cose sono cambiate in meglio e tutti siamo più attenti a quel che mangiamo e a come è prodotto il cibo che mettiamo in tavola. Certo, il cammino da percorrere è ancora molto lungo, ma rispetto all’indifferenza e, anzi, al fastidio per certi argomenti comune negli scorsi decenni, le cose sono davvero cambiate in meglio. Tanto per tornare al confronto con gli anni 70, ricordo che quando ero studente di Agraria anche il mondo accademico, salvo meritevoli eccezioni, sembrava convinto dei superpoteri della chimica e della genetica, e inseguiva il miraggio di incrementi quantitativi di produzione nell’illusione di una crescita infinita. E come sempre, chi cercava di nuotare controcorrente era considerato un illuso o un sognatore.
Un terzo aspetto che considero positivo riguarda proprio i numeri: nonostante il forte dimagrimento rispetto al passato, conseguenza inevitabile e logica della meccanizzazione, il settore agricolo in Italia è ancora vivo e vitale e il numero degli addetti è molto alto rispetto agli altri paesi europei. Anche il fatto che le superfici aziendali siano piccole, con una media di pochi ettari, non è per me un fattore così negativo come spesso ci vogliono far credere, anzi, potrebbe essere proprio il valore aggiunto specifico della nostra agricoltura.
Imitare gli americani e inseguire una realtà di enormi aziende in mano a fondi speculativi e banche mi sembra il peggiore degli scenari possibili: un’agricoltura senza contadini proprio non mi piace.

Pubblicato su La Guida del 7-12-022