Autosufficienza 8: forni da pane

Per capire l’importanza, anche sociale e architettonica dei forni dobbiamo aver capito la centralità che aveva un tempo il “pane quotidiano”, vero fulcro su cui si basava tutta l’economia di autosufficienza, e cercare di immaginare la quantità di fatica necessaria per produrlo.
Una parte consistente dell’attività agricola dell’anno ruotava intorno al ciclo del grano e della segale e fare il pane era il momento conclusivo di un lavoro lungo e incredibilmente faticoso. Oggi, nell’epoca delle mietitrebbie, dei trattori, dei diserbanti, della mondializzazione del commercio, fatichiamo a renderci conto della difficoltà e della fatica fisica che era un tempo necessaria per produrre il pane da mettere ogni giorno sulla tavola.
Ci occorre uno sforzo di immaginazione, o i resoconti delle persone più anziane, per riuscire a capire il duro lavoro di uomini ed animali necessario per concimare la terra, arare con strumenti primitivi trainati da animali, seminare a spaglio, zappare, mietere con il falcetto il grano maturo, fare i covoni, trasportarli sull’aia, batterli con il correggiato o con attrezzatura rudimentale, separare la cariosside dalla pula con il vaglio, portare al mulino i sacchi, riportare a casa la farina, difenderla dai topi e dall’umidità: una quantità incredibile di lavoro, fatica e preoccupazioni lungo tutto il corso dell’anno.
Si può capire quindi l’attenzione estrema che la gente di montagna riservava alla cottura del pane, e di conseguenza al forno, ultimo e decisivo momento di una lunga catena di operazioni il cui scopo era la stessa sopravvivenza. Un errore in questa fase poteva avere conseguenze molto gravi. Un pane cotto male, che ammuffiva e non si conservava significava la fame o, comunque, lo spreco di una grande quantità di lavoro.
Di qui l’importanza del forno, vero punto centrale di ogni borgata montana. Nella civiltà contadina e soprattutto montanara, infatti, il forno rappresenta non solo una necessità vitale per la sopravvivenza, ma anche un punto di incontro e di lavoro comune, un momento di socializzazione, una vera e propria struttura comunitaria. La casa e la terra sono del singolo, della famiglia, ma il forno è quasi sempre di proprietà della borgata o per lo meno, di uso collettivo. Nelle medie e alte valli i casi di forni di proprietà privata sono abbastanza rari e in genere relativamente recenti.
Questo per necessità di non sprecare risorse (il terreno, i materiali da costruzione, la legna), ma anche e soprattutto per la volontà e l’esigenza di gestire collettivamente questo momento così importante, culminante, quasi sacro, che rappresenta il coronamento di un lungo lavoro e insieme un’occasione di festa.
Il forno è anche stato, per secoli, il simbolo visibile e concreto di quell’autonomia che passa attraverso l’autosufficienza. Il progressivo affrancarsi da privilegi e pretese dei nobili “signori del luogo”, una lotta che attraversa i secoli, dal medioevo fino all’inizio Ottocento, passa anche dall’uso di mulini e forni, un tempo appannaggio della classe dominante.
Costruirsi insieme il proprio forno comune era un modo per affermare la propria indipendenza e rinsaldare vincoli di fraternità. Il lavoro condiviso, la divisione delle spese, le decisioni comuni su turni e avvicendamento rinsaldavano i vincoli di vicinanza e parentela e facevano superare gli inevitabili attriti di una convivenza ravvicinata. Per questo, il forno, assieme alla fontana-lavatoio e ai simboli spirituali (cappella, pilone) era il vero centro di aggregazione della borgata, anche quando, per motivi di sicurezza, si trovava all’esterno dell’abitato. Quest’ultima soluzione era tipica della bassa e media valle, soprattutto in caso di tetti coperti a paglia, per evitare il pericolo di incendi. Nelle borgate con copertura a lose era di gran lunga più comune una posizione centrale e di comodo accesso per tutti, anche per evitare, nei mesi invernali, l’eccessivo raffreddamento della massa in lievitazione durante il trasporto.
I forni più antichi sono ancora costruiti in pietra, ma sono ormai una rarità. Quasi tutti hanno volta in mattoni e fondo fatto dai limbes, mattonelle squadrate di grandi dimensioni. La bocca era sovente in pietra e chiusa da una pesante losa, sostituita in tempi recenti da una più maneggevole porta in ghisa. La pianta poteva essere circolare oppure ovale e le dimensioni erano in genere considerevoli e misurate non tanto in centimetri ma in chili di pane per cottura: un forno da venti, trenta, quaranta chili. Il forno dla Soutana di Gaiola era da ben 5 emine, cioè poteva cuocere 80 chili di pane, una quantità davvero elevata, in genere condivisa da più famiglie.
Proprio le grandi dimensioni dei forni di borgata sono oggi un limite per l’utilizzo famigliare. Sono lo specchio e il ricordo di borgate ancora densamente popolate, in cui valeva la pena scaldare volumi imponenti e sfruttare l’inerzia termica delle grandi masse per molte cotture successive. Oggi, per una singola famiglia dai consumi modesti sarebbe uno spreco. Anche per questo, nei posti in cui ho abitato, ho preferito costruirmi un forno più adatto alle esigenze attuali, di dimensioni contenute e quindi più facile da scaldare. Il forno è un piacere anche in fase di progettazione e costruzione, e immaginarlo e poi realizzarlo dà un senso alla casa e all’abitare.
Ma mi è rimasta la passione dei forni comuni, e quando giro per borgate è sempre la prima cosa che vado a vedere. Se la porta è aperta, non posso evitare di cacciarci dentro la testa, a costo di sporcarmi di fuliggine: le volte a pietra o mattoni sono spesso dei capolavori di architettura e di capacità artigianale. La struttura a volta è anche estremamente robusta e spesso le volte a botte delle stalle e dei forni sono le ultime a morire e sopravvivono anche in borgate ormai ridotte a tristi ciapere.

Pubblicato su La Guida del 1-12-022