Lavorare per la pagnotta

Tutti noi, raggiunta una certa età, cadiamo nella tentazione di rimpiangere i bei tempi andati (sovente perché scambiamo il nostro personale declino con il collasso dell’universo intero, o per gli inganni della memoria selettiva, che ci fa ricordare del passato solo gli aspetti piacevoli). Un buon antidoto contro questa tendenza è quello di interessarsi della “microstoria”, cioè di quella parte degli studi storici che cerca di capire la quotidianità della gente comune, invece di fermarsi a date di battaglie e nomi di regnanti.
La conoscenza del passato può anche farci capire meglio le dinamiche del presente, situando le cose in una prospettiva diversa da quella da cui ci appaiono a prima vista.
Se qualcuno, nei giorni scorsi, leggendo il conto della spesa si è stupito o rammaricato per gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari, può consolarsi pensando che, in epoche precedenti, nei nostri paesi, le cose andavano molto peggio.
Quando curiosavo negli archivi mi aveva colpito molto notare quanto fosse diverso da quello attuale il rapporto tra salari e prezzo dei beni di prima necessità. Dire che un tempo si lavorava per la pagnotta è un eufemismo, almeno per le categorie più povere di manovali, artigiani o impiegati.
Il lavoro manuale era in passato pagato poco o niente e anche gli stipendi per incarichi nella Comunità erano bassissimi, mentre cereali, cibo, materiali, utensili e vestiario, potevano avere prezzi che ora troveremmo esorbitanti.
La Comunità di Cervasca a fine Seicento spendeva molto di più a comprare al messo un vestito che a pagargli lo stipendio per tutto l’anno. Nel 1683 il “serviente di Comunità” era pagato 27 lire all’anno, cifra sufficiente appena a comprare un quintale di grano (sia pure ai prezzi da rapina dei fornitori dell’esercito di quegli stessi anni). Nel 1680 il comune pagava 5 lire e mezza per una “brassa di bosco”, cioè oltre un sesto dello stipendio annuale del sindaco per un mucchietto di legna da ardere.
Ancora peggiore la condizione delle donne impiegate nella lavorazione della seta. In una lettera molto interessante del 1752 l’Intendente Brandizzo parla diffusamente delle filatrici della strazza di seta, un sottoprodotto della lavorazione industriale (in pratica i fili strappati) che veniva recuperato con un lavoro certosino da donne che nei mesi invernali scendevano a Cuneo dalle valli per necessità di sopravvivenza. Queste poverette, lavorando dall’alba al tramonto, impiegavano più di una settimana per guadagnare una lira, in anni in cui la segale costava due lire per emina. In altre parole, la retribuzione lorda di una lunga giornata di lavoro era appena sufficiente a comprare un chilo di pane.
Anche nei secoli passati il prezzo dei cereali subiva forti fluttuazioni, a seconda del gioco di domanda e offerta. Annate negative, parassiti, grandinate potevano far lievitare rapidamente i prezzi, mentre i cali demografici successivi a guerre ed epidemie potevano ridurli di molto. Dopo la peste del 1631, che in molti nostri paesi aveva ucciso dalla metà ai tre quarti della popolazione, il grano era sovrabbondante e a buon mercato, e questa disponibilità aveva contribuito alla forte crescita demografica di fine secolo, coincidente con la nascita di molte nostre borgate.
I prezzi di grano e segale erano talmente variabili in passato che lo stato sabaudo nel 1601 aveva introdotto una delle tasse più odiate e odiose di tutti i tempi: il Comparto dei grani, destinata al mantenimento dell’esercito. Un’imposta in natura, cioè in granaglie, che ogni comune doveva versare, trasportandole a sue spese nel centro di raccolta militare di Polonghera. In questo modo, i Savoia si mettevano al riparo dalle impennate dei prezzi negli anni di carestia, trasferendo il peso degli aumenti sui sudditi. Cervasca doveva consegnare ogni anno 70 sacchi (una sessantina di quintali), Demonte 72, ma anche Castelmagno, già molto carente di cereali in rapporto alla popolazione, doveva fornire la sua quota di una quarantina di sacchi, sottraendoli alla fame degli abitanti. Il “sacco”, usato come unità di misura, era di 5 emine, quindi pesava circa 90 chili.
Senza andare così indietro nel tempo, basta pensare agli anni dell’ultima guerra, in cui, fra tessere, razionamenti e borsa nera, il prezzo degli alimenti poteva essere proibitivo. Ricordo ancora Pierìn, mio primo maestro nell’arte di allevare le api, che mi raccontava dei suoi giorni da ragazzo, quando un chilo del suo miele valeva molto di più della sua giornata da operaio.
Naturalmente, tutta questa chiacchierata non vuole affatto minimizzare il problema degli attuali aumenti di pasta e altri alimenti e neppure servire da magra consolazione confrontando il presente con tempi peggiori. Fra l’altro, far paragoni economici fra secoli diversi può essere fuorviante e poco sensato. La conoscenza di ciò che è già capitato può però farci capire quello che sta capitando e prevedere quello che potrà capitare.
Senza sottovalutare l’impatto che la crescita del prezzo dei generi alimentari può avere per molte persone, credo che per ora il problema davvero importante sia rendersi conto delle cause e attuare scelte concrete che possano contrastarle efficacemente. Altrimenti si potrebbe davvero arrivare a situazioni in cui la fame, quella vera, tornerà ad essere una triste realtà per tanti.
Per molte famiglie (per ora) la frazione di reddito destinata all’alimentazione è molto bassa, se la paragoniamo a un passato anche relativamente recente, in cui essere ricchi voleva dire avere cibo sulla tavola e vestiti decenti. Anche per questo, possiamo accorgerci poco di questi aumenti, col risultato di non renderci pienamente conto del potenziale dirompente che potrebbe avere una crisi alimentare “vera” e diffusa.
Conoscere il nostro passato, anche in questa dimensione quotidiana vissuta dalla gente comune, ci può far capire che, anche in un mondo globalizzato, tecnologico e industrializzato, la possibilità di un futuro prossimo in cui non sia così scontato trovare cibo in tavola sia concreta e reale.
Come, d’altra parte, anche se lo ricordiamo poco e malvolentieri, è tutt’ora cosa molto concreta e reale, per una buona fetta dell’umanità, la fame quotidiana.

Pubblicato su La Guida del 24-2-022