Contabilità applicata alla guerra

Per decenni mi è toccato insegnare estimo, materia che non amavo e che ho sempre considerato di scarsa dignità scientifica e umanistica, ma che mi sforzavo comunque di rendere sopportabile a me stesso e agli studenti.
Come capita a chiunque faccia a lungo un mestiere, la consuetudine forzata mi ha in qualche modo condizionato e, senza volerlo, mi trovo ancor oggi a ragionare usando inconsciamente parametri e schemi mentali rimasti incrostati nella mente dagli anni della scuola. Così, quando ho letto della decisione del governo di aumentare le spese militari arrivando al 2% del PIL, prima ancora di reagire col cuore di pacifista e obiettore di coscienza ho subito ragionato con la testa dell’ex insegnante di contabilità e pensato che fosse una follia dal punto di vista economico.
Spendere soldi e risorse per preparare e comprare armi è un pessimo investimento da tutti i punti di vista, salvo, naturalmente, da quello di chi intende speculare sulle disgrazie altrui. Ce lo dice la storia, passata e recente, ce lo dicono i numeri, con la loro disarmante semplicità.
Vent’anni di guerra in Afghanistan sono costati 6,4 trilioni di dollari e altrettanti di interessi sui debiti accumulati (cifre impossibili anche solo da visualizzare), ma soprattutto 7 mila morti fra i soldati e altri 8 mila fra mercenari e civili solo da parte americana. Costi e vittime totali sono difficili da calcolare, ma non da immaginare.
Il risultato del ventennio di guerra l’abbiamo sotto gli occhi, con i talebani più forti di prima e un paese devastato e abbandonato.
La guerra in Iraq ha avuto costi umani ed economici simili ed ha prodotto la nascita dell’Isis, lo stato islamico, un esercito di profughi disperati e la destabilizzazione e radicalizzazione dell’intera regione.
Melani McAlister, una studiosa e accademica americana, ha calcolato che nelle varie guerre seguite all’11 settembre per “portare la democrazia e combattere il terrorismo” abbiano perso la vita 335 mila civili. Il numero dei profughi supera i 37 milioni. In nessuno dei paesi interessati si è vista traccia di democrazia e il terrorismo non è certo scomparso.
Se poi andiamo indietro nel tempo alle due guerre mondiali la contabilità diventa terribile, i morti si contano a milioni e i costi diretti e indiretti sono davvero incalcolabili. Ma senza perdersi nei numeri, pare evidente che una qualsiasi analisi costi-benefici applicata a una qualsiasi guerra porti allo stesso risultato: costi umani ed economici spropositati e benefici nulli, anzi molto negativi.
È evidente che mescolare dati di vittime con costi monetari non ha senso e che qualsiasi considerazione economica diventa del tutto secondaria quando si parla di vite umane.
Ma, prima ancora di condannare ogni violenza in quanto cittadini dell’unico mondo e figli dello stesso Padre, c’è la semplice constatazione “economica” che le guerre sono mezzi di scarsa o nulla efficacia per risolvere gli inevitabili conflitti e che, anche restando nel terreno banale della contabilità spicciola, si dimostra facilmente che le spese per armamenti sono sempre pessimi investimenti per la comunità.
Investire ingenti risorse in armi di qualsiasi tipo, inoltre, non è certo una via che può portare alla pace. La storia, la logica e il semplice buonsenso ci dicono che le armi prima o poi si usano, e questo vale sia per i singoli cittadini (basta guardare cosa succede negli stati in cui è facile e legale procurarsi e detenere pistole e fucili) che per le nazioni.
L’odio genera odio, la violenza genera violenza, l’uso delle armi da una parte provoca una risposta armata dall’altra: l’unico modo di fermare il crescendo è togliere combustibile all’incendio, non aggiungerne altro.
Una delle caratteristiche di ogni guerra è proprio quella di creare un groviglio inestricabile di azioni e reazioni in cui ragione e torto si mescolano fino a perdere contatto con le cause di partenza. Se anche all’inizio ci sono i buoni e i cattivi, gli attaccanti e gli attaccati, chi fa un sopruso e chi lo subisce, col progredire del conflitto il livello crescente di violenza, rappresaglie e vendette rende impossibile distinguere torti e ragioni, le vittime dai carnefici.
Ma il fatto di opporsi a qualsiasi corsa agli armamenti non vuol dire tollerare i soprusi o non reagire in modo fermo ed efficace alle aggressioni: pacifismo non significa neutralità o peggio indifferenza. Anzi, è proprio il contrario: è questione di scegliere la strategia più efficiente per raggiungere uno scopo. Che, come confermato anche dalla contabilità spicciola dei passati conflitti, non è mai quella che passa attraverso la scorciatoia della violenza e della guerra.
L’attuale sistema finanziario globalizzato, pur con tutti i suoi problemi e difetti, può forse offrire un mezzo efficace per mettere in difficoltà Putin più di quanto possano farlo i carri armati e gli F35. La solidarietà attiva con il dissenso interno può isolare il dittatore e farlo cadere. Il popolo russo e il popolo ucraino possono dimostrare che non sono mai i popoli a volere le guerre, ma dittatori e oligarchi e che una serena convivenza nel rispetto delle diversità è possibile e conveniente.
Per concludere riportando il discorso a un livello diverso da quello della semplice contabilità spicciola del dare e avere economico, vorrei trascrivere una frase da una lettera di Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz. Etty scriveva dal centro di smistamento da cui partivano i convogli per il campo di sterminio.
“So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancor più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera.”
Forse, per una volta, la contabilità spicciola e le grandi scelte esistenziali e spirituali possono andare d’accordo nel rifiuto fermo e convinto della dissennata corsa agli armamenti.

Pubblicato su La Guida del 7-4-022