Rottamazione 2 Primo: non sprecare

Chiunque abbia a cuore la natura sa che il primo comandamento di ogni persona sensibile ai problemi ambientali è il non sprecare. Una norma inderogabile che nasce dalla consapevolezza di vivere in un mondo in cui le risorse sono limitate e preziose. Cibo, metalli, minerali, ma soprattutto terreno agricolo, spazi verdi, energia, acqua sono fattori presenti in quantità limitate che devono essere divisi fra tutti gli abitanti del pianeta con giustizia e conservati con cura per le generazioni future.
La rottamazione, questa sorta di eutanasia obbligata dei vecchi automezzi, prima ancora che un danno ingiusto che ricade proprio sulle categorie meno abbienti e più parsimoniose, è uno spreco intollerabile e ingiustificabile. Soprattutto se imposto con la scusa ipocrita dell’ambiente: è inutile far tanta attenzione a non produrre rifiuti, raccoglierli porta a porta in sacchi trasparenti, soppesare gli etti di plastica e i grammi di carta e poi obbligare a gettare venti quintali di automezzo ancora in buono stato.
Dopo le divagazioni chimiche e tecniche della volta scorsa, vorrei portare il discorso su un piano più culturale e anche personale.
Non sprecare, o nella lingua corrente della nostra lontana infanzia, “tnì da cunt la roba”, è uno degli imperativi categorici, assieme all’onestà e al rispetto, che ci hanno trasmesso le generazioni precedenti, con la parola, ma soprattutto con l’esempio. È parte integrante, insieme ad altre caratteristiche più o meno simpatiche, anche del bagaglio culturale e dell’anima di noi piemontesi e, in particolare, cuneesi.
Anche per questo le normative regionali che, di fatto, impongono la rottamazione precoce di automezzi ancor in buono stato sono un vero e proprio tradimento delle nostre caratteristiche culturali e storiche. Attuato, per di più, come sembra diventato di moda, con la formula ipocrita di imporre in pratica senza però volersi esporre a un preciso e chiaro obbligo. Un modo per evitare di assumersi la responsabilità politica, morale e giuridica delle decisioni, che formalmente risultano frutto della libera scelta del soggetto.
Le altre epoche hanno sempre fatto oggetti che sopravvivevano agli uomini, che si tramandavano da una generazione all’altra. Erano anche le “cose” che tenevano unite le persone e cucite le generazioni, facevano da ponte e da traghetto, ricordavano i padri, le madri e i nonni meglio delle foto sbiadite. Ora fabbrichiamo manufatti progettati per diventare presto rifiuti, cose vuote di essenza e piene d’apparenza, nate per avere vita breve. Oggetti che non avranno mai storia, che non hanno nulla da raccontare e ancor meno da tramandare. Obsolescenza programmata, la chiamano, e serve per mantenere attivo il moto continuo della domanda e dell’offerta che fa muovere l’economia. Serve anche, però, a coprire il mondo di rifiuti, a sottrarre preziose risorse e, in una parola, a inquinare (aria, suolo, acqua e anche le nostre menti) nel senso proprio e pieno del termine.
Io sono convinto che le cose, quando non sono troppe e sono utili, siano preziose e debbano essere conservate con la massima cura. Contengono non solo i materiali di cui sono formate, ma anche il lavoro, la pazienza e la sapienza di chi le ha fatte. Per questo, pur essendo per definizione inanimate, in fondo hanno sempre un’anima.
In questo senso sono un conservatore: amo usare cose usate, appoggio fogli e computer sulla scrivania di mio padre, tengo i vestiti nella guardaroba che era di mio nonno e uso spesso i suoi attrezzi da falegname.
Le cose nuove non mi dicono molto, è solo con l’uso che mi affeziono agli oggetti. Ogni cosa acquista valore man mano che la sua storia si interseca con la mia, diventa parte della mia vita. Le mie bici hanno ognuna molti più chilometri di quanti ne conti la circonferenza della terra all’equatore, furgone e trattore sono da tempo maggiorenni, con la Lambretta siamo quasi compagni di leva. Ancor più preziosi sono quegli oggetti che arrivano da vite precedenti, da famigliari o amici. Qualcosa della pazienza e della tenacia di mio nonno è rimasto incagliato nei suoi attrezzi da falegname, mi piace scrivere con la penna di mio madre o appoggiare i gomiti sulla scrivania di mio padre.
Non è questione di taccagneria e neppure una sorta di idolatria del bel tempo andato o di fissazione feticista per gli oggetti. Non ho anima d’antiquario, uso le cose perché in quel momento mi servono, ben conscio che si tratta solo di “cose”, ma anche convinto che in esse ci sia sempre il riflesso delle persone, il lavoro, la materia prima.
È piuttosto una questione genetica, di imprinting, di educazione, di scelta e di principio.
È anche, per noi piemontesi e cuneesi, una questione culturale e quasi identitaria. Non è davvero piemontese chi non ha radicato nell’anima e nella pratica il rispetto per la roba, quell’imperativo categorico dello “tnì da cunt” che è da sempre il primo comandamento per ogni persona che vuole davvero rispettare l’ambiente.
L’esatto contrario di ogni rottamazione, forzata o incentivata che sia. (continua)

Pubblicato su La Guida del 7-10-021