Chomsky e la torre di Babele

Noam Chomsky è lo studioso di linguistica che ha “inventato” nei lontani anni 50 del Novecento la grammatica generativa, intuendo e dimostrando con criteri scientifici che ogni lingua si basa su abilità innate proprie di ogni essere umano e che perciò tutte le diversissime forme di linguaggio che percorrono il mondo, arricchiscono la geografia e attraversano anche la storia, hanno fondamenta comuni.
È interessante notare come la teoria di Chomsky sembri in sintonia anche con il racconto biblico della torre di Scinar/Babele. La storia è molto conosciuta e occupa un certo spazio nel nostro immaginario, tanto che stupisce un po’ imbattersi in un testo brevissimo, quasi un inciso di appena nove versetti, incastrati nel lungo elenco della genealogia di Sem, uno dei tre figli di Noé. Poche parole e una posizione strana, dimessa e nascosta, per uno dei fatti più noti dell’intera Bibbia.
A una lettura superficiale, il laconico racconto sembra quasi la fotocopia rimpicciolita dell’episodio della mela e del serpente, e la confusione delle lingue, che provoca il fallimento dell’ambizioso tentativo di costruire una torre che unisca terra e cielo, sembra la punizione per l’arroganza e l’audacia degli uomini. Un Dio che interviene (di nuovo…) per ricordare all’uomo di stare al suo posto e non alzare troppo la testa.
A me piace invece l’interpretazione che ne dà Erri De Luca nel suo libretto Una nuvola come tappeto, per cui l’intervento deciso di Dio è fatto per distogliere gli uomini “dal vicolo cieco del cielo in cui si erano andati a cacciare” e regalare a ogni popolo lingue e alfabeti differenti.
La benedizione della varietà, delle mille sfumature del linguaggio, delle mille occupazioni diverse a sostituire la triste uniformità di una sola lingua e l’unica ossessione per l’edilizia che aveva assorbito tutto l’ingegno umano (sembra che anche allora fossero di moda le “grandi opere”).
Evidentemente, Dio ama le differenze: non ci vuole uguali e neanche troppo simili. Né come lingua, né come cultura, e neppure come modo di pensare, di agire, di lavorare. Anche Cristo nello scegliere i dodici amici che ora noi chiamiamo apostoli, si era circondato di personalità molto diverse e ne aveva sempre rispettato le peculiarità: a Pietro e magari anche a Matteo ha cambiato nome e mestiere, ma non certo il carattere.
La reazione divina al progetto di grattacielo è decisa, immediata, senza mediazioni. Ma non credo che questo forte intervento sia motivato dal bisogno di impedire tentativi di scalata: il cielo, per l’uomo, è in fondo sempre stato inospitale, ma il suo padrone si è sempre dimostrato accogliente e tollerante.
Credo che la mano di Dio si sia mossa non per ridimensionare e bacchettare la sua creatura, ma per impedire che l’uomo confondesse unità e uniformità, due parole che hanno uguale radice ma diversissima natura. Dio sembra amare molto l’unità, ma non tollera proprio qualsiasi pretesa di uniformità, che è negazione della libertà, delle possibilità espressive, della bellezza, dell’amore.
Da allora abbiamo avuto in regalo lingue, idee, aspirazioni, modi di pensare diversi, ma, secondo Chomsky, con una base comune, che magari è ancora ricordo dei tempi precedenti al tentativo di abuso edilizio. Grazie all’imprinting di quell’unica origine, con un po’ di sforzo possiamo sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda ed essere in grado così di capirci, nonostante accenti, alfabeti e grammatiche diverse. Magari è questo il senso di quanto capitato il giorno di Pentecoste, quando ognuno continuava a parlare la propria lingua, ma tutti si capivano.
Forse l’unica unità possibile è quella della diversità, di arrivare a comunicare pur restando ognuno se stesso e forse perché avvenga questo è determinante l’aiuto dello Spirito. D’altra parte, lo Spirito è aria, vento, alito, respiro, e la parola per nascere deve diventare suono e vibrazione che ha bisogno di quel fluido per passare da uno all’altro.
Del brevissimo racconto della torre di Scinar/Babele è anche interessante il momento precedente alla confusione delle lingue e all’intervento divino, quando tutti sono ancora uniti, oltre che dall’unico linguaggio, anche da un’estrema foga lavorativa, da un progetto un po’ folle e dalla fede nell’utopia.
Chi ha sfiorato certi momenti storici di cambiamento (come, per molti di noi, quello seguente al ’68) ha vissuto la breve magia dell’unità di ideali e la conseguente dispersione negli anni del riflusso e della riflessione, e può capire la forza e anche il pericolo di quegli istanti di coesione e forse di illusione.
In certi momenti, complice anche l’età giovanile, eravamo davvero convinti che avremmo potuto, tutti insieme, cambiare il mondo, e per qualche attimo, abbiamo anche parlato tutti la stessa lingua. Avevamo le stesse parole d’ordine, le stesse canzoni, lo stesso modo di fare e di vestirci, gli stessi sogni e le stesse illusioni. Non è arrivato nessun Dio a disperdere le nostre assemblee e frantumare i nostri linguaggi, ci abbiamo pensato da soli a coltivare le nostre divisioni, ad andare ciascuno per la propria strada e a costruirci vocabolari e grammatiche diverse, ma è stato comunque bello, quell’attimo di illusione giovanile.
Ma lasciamo perdere le nostalgie, che sono sempre scivolose e pericolose, e torniamo a Chomsky. Nel suo campo il linguista americano è stato un’autorità assoluta, un innovatore e un precursore, ma come molte persone geniali Chomsky non si è limitato a zappare l’orticello di sua competenza e la sua mente libera e creativa ha spaziato fra filosofia, politica, economia e altri campi, suscitando reazioni vivaci e spesso discordi.
Molto conosciute sono le dieci regole del controllo sociale, una sorta di decalogo che lo studioso in realtà non ha mai scritto e che è stato “assemblato” non si sa da chi raccogliendo frasi sparse, spezzoni di interviste, risposte, commenti.
E’ anche questo un segno dei tempi e un’ironia del destino, il fatto che un grande esperto di comunicazione sia noto più per un’opera che non ha mai scritto che per i saggi e gli articoli davvero pubblicati.
Lo stesso Chomsky pur non riconoscendo la paternità del “decalogo” sembra essersi rassegnato ad accettare l’accostamento del suo nome al declinare di queste regole, constatando con realismo che ai tempi di internet qualsiasi affermazione diventa “eterna” e mai più cancellabile e si resta in qualche modo prigionieri per sempre di quel che si è detto o scritto.
Nonostante la paternità disconosciuta, in questi tempi di perenne emergenza può essere utile, per chi non lo ricorda, andarsi a rileggere il decalogo apocrifo del vecchio linguista, un buon manuale sull’arte del condizionare l’opinione pubblica in cui ognuno potrà trovare riferimenti puntuali alla situazione che stiamo vivendo.
L’idea, quando ho iniziato a scrivere, era proprio quella di fare, insieme a chi mi avesse accompagnato con la lettura, una passeggiata nelle dieci regole, ma poi, tanto per stare in tema, mi son lasciato confondere dalla torre di Babele e sono caduto nella trappola delle divagazioni e delle distrazioni (che, guarda caso, sono per Chomsky, il primo elemento strategico del controllo sociale). Così sono finito abbondantemente fuori tempo massimo.
Chiedo scusa, magari sarà per la prossima volta,
lele

pubblicato sul Granello di senape di marzo 2021