Parlare di parole 6: giocare con le parole

Le precedenti cinque chiacchierate si potrebbero riassumere con una sola breve frase: le parole sono cose serie e importanti. Proprio per questo motivo, sono convinto che con le parole dobbiamo anche e soprattutto giocare.
Un po’ come i bambini che costruiscono castelli di sabbia sulla spiaggia, o che passano ore a fare costruzioni coi lego o coi cubetti e sono tutti presi da quello che fanno, perché sanno bene che il gioco è il momento più importante della giornata. Anche nel regno animale i cuccioli imparano tutto quello che serve giocando. E allora possiamo e dobbiamo continuare anche noi a giocare per tutta la vita, anche e soprattutto quando si accumulano gli anni, e le parole, proprio come i cubetti o i lego, si prestano molto bene a questo esercizio.
Non si smette di giocare perché si diventa vecchi, ma si diventa vecchi perché si smette di giocare, diceva George Bernard Shaw, e non era una battuta di spirito, ma una perla di saggezza nascosta, tanto per stare in tema, in un gioco di parole.
I giochi di costruzioni dei bambini, i cubetti, i lego, i puzzle o il meccano, sono esempi perfetti di quello che intendo per giocare con le parole: cercare il pezzo giusto e incastrarlo insieme agli altri per fabbricare un insieme che abbia uno scopo e una funzione. Giocare con le parole, infatti, non vuol dire far giochi di parole, dire cose spiritose o cercare la risata o il sorriso, ma mettere la parola giusta al posto giusto.
Nei tempi ormai lontani in cui andavo a scuola, l’insegnamento dell’italiano si basava soprattutto su grammatica e sintassi, mentre era quasi del tutto assente lo studio del significato delle parole e dell’etimologia. Anche nel latino e greco si studiavano infinite coniugazioni e declinazioni e poi si saltava direttamente agli autori, senza mai soffermarsi sulla derivazione e sulla storia delle parole. Ho sempre trovato strano questo approccio e mi auguro che adesso le cose siano cambiate. Grammatica e sintassi sono le istruzioni per l’uso della lingua e, proprio come capita per i foglietti allegati ad attrezzi e macchinari, possono anche essere necessari, ma sono comunque poco divertenti. Ed è inutile studiarsi a memoria il manuale di montaggio di un mobile e poi non riconoscere i singoli pezzi che lo compongono.
Per conoscere l’esatto significato di ogni parola possiamo rifarci all’etimologia, consultare un buon vocabolario, praticare l’arte della traduzione o farci guidare dalle indicazioni di termini simili oppure opposti. Sapere ciò che “non vuol dire” una parola ci aiuta molto a definirne il senso preciso e il corretto utilizzo.
Non ho mai avuto uno di quei dizionari dei sinonimi e dei contrari che usavano gli studenti per evitare di incorrere in troppe ripetizioni nei temi d’italiano (e magari ne avrei avuto bisogno in queste chiacchierate, in cui, parlando di parole, non ho potuto evitare di usare infinite volte il termine “parola”). Il dizionario forniva per ogni sostantivo o aggettivo il suo apparente gemello, in grado di sostituirlo con eleganza, e anche il suo contrario.
Ho sempre nutrito forte diffidenza nei confronti dei sinonimi e mi fido piuttosto dei contrari (e non credo che questo dipenda solo dalla mia indole innata di bastiancuntrari). Mentre il contrario di un termine, come si diceva prima, può aiutarci a capire meglio la parola che ci interessa, resto convinto che non esistano sostantivi o aggettivi con identico significato, così sovrapponibili da potersi scambiare con disinvoltura e senza fraintendimenti. Credo, anzi, che ogni parola, come ogni uomo e ogni donna, abbia una sua personalità, un suo codice genetico che la rende unica e che possa essere davvero pericoloso o fuorviante confondere termini solo apparentemente intercambiabili. Non si tratta solo di quella che in piemontese definiremmo una pignoleria da “gent pistina”, ma dell’essenza stessa della comunicazione, cioè della sua chiarezza e a volte della sua stessa onestà.
Un articolo di qualche tempo fa di Antonella Boralevi faceva notare come anche nella narrazione di questi mesi di pandemia sia stata sovente usata la tecnica linguistica dello spostamento di senso, per esempio sostituendo il termine “critica” con il sostantivo, solo apparentemente equivalente “polemica”. Se davanti a critiche motivate per la gestione dell’emergenza ci si nasconde dietro alla frase: “non è il tempo delle polemiche”, si sostituisce un termine positivo (la critica è costruttiva: mette in luce i problemi per cercare di risolverli) con una parola che è sentita come negativa. La voce “polemica”, infatti, ha un’etimologia che ci riporta alla guerra, e soprattutto contiene l’idea implicita che sia infondata e pretestuosa.
Una parola non vale mai l’altra e i potenti di tutto il mondo lo sanno bene: Trump aveva dato ordine a tutte le agenzie americane di non usare l’espressione “riscaldamento climatico” e sostituirla con “cambiamenti climatici”, cosciente del fatto che il riscaldamento è percepito come negativo, mentre un cambiamento può essere anche positivo e comunque preoccupa meno.
Scambiare una parola con un’altra è quindi pericoloso e può essere un modo per ingannare o orientare l’opinione pubblica nella direzione voluta. Sia nel campo economico che in quello politico, la comunicazione non è mai causale e spesso neppure onesta. Tocca a noi farci gli anticorpi per capire queste degenerazioni fraudolente dei messaggi che ci sono trasmessi e possiamo farlo solo conoscendo il significato, il peso e il valore di ogni singolo termine che ascoltiamo o leggiamo.
Altrimenti rischiamo di cadere nella trappola di chi, per proprio tornaconto, usa le parole per confonderci, imbrogliarci e farci fare (e addirittura pensare) quello che vuole.
(continua)

Pubblicato su La Guida del 25-2-021