In principio

All’inizio di ogni anno la nostra attenzione è concentrata su quello che è stato e quel che sarà, e tutti presi da preoccupazioni e speranze, bilanci e propositi, auguri e saluti scivoliamo senza accorgercene su quell’ “all’inizio” per arrivare subito alla parola “anno”.
Ci interessiamo al nuovo anno, alla sua numerazione, alle prospettive e alle novità, e non facciamo caso alle due paroline che lo precedono e che sembrano messe lì come accessori di nessun interesse. Eppure “all’inizio” (o “in principio”) è espressione della massima importanza, con radici filosofiche, esistenziali e bibliche così profonde da far impallidire il termine anno, relegandolo a semplice annotazione astronomica e contabile.
“In principio” è la povera traduzione italiana sia del bereshit ebraico con cui comincia Genesi che dell’en arché greco che introduce il Vangelo di Giovanni. Due inizi speculari, del primo e del (quasi) ultimo dei nostri testi sacri, un parallelismo che mi ha sempre affascinato e che, come ogni parola, anche minima, nell’ultimo evangelista, non è affatto casuale.
Per l’ignoto estensore del primo libro della Bibbia, l’inizio coincide con la creazione di cielo e terra, per Giovanni l’arché (termine che ha valore non solo temporale, ma anche causale) consiste nel logos, la parola, il progetto.
Terra e parola, natura e relazione, sono il “principio”, l’inizio, la base, la causa, il punto di partenza e di arrivo.
Terra e parola sono anche il filo conduttore di molte nostre vite: se mi giro indietro a guardare il mio passato vedo mezzo secolo speso a ostinarmi a zappare la terra e rubar spazio alle runse e un tempo ancor più lungo sui banchi di scuola, da una parte e dall’altra della cattedra, a scambiarsi parole, a voce e per scritto.
Custodire e coltivare il giardino è il primo compito dell’uomo e della donna nei piani del Creatore. La Legge e i Comandamenti vengono molto dopo, sembrano quasi un male necessario, una reazione obbligata, come spiega Cristo in Mt 19 e in altre occasioni, alla nostra “durezza di cuore”.
I due inizi, terra e parola, esprimono anche una sequenza temporale che invita a fare prima di parlare, a occuparsi della manutenzione del Giardino prima di addentrarsi nel Logos. La parola è conseguenza della vita, del fare, non sostituto ma compimento. Solo così perde la sua inconsistenza e può prendere forma e sostanza. Ma è anche vero che l’attività pratica nasce da un’idea, un progetto, un logos, altrimenti è solo meccanica e ripetizione. C’è quindi complementarietà e interdipendenza fra i due termini e non c’è conflitto fra i due inizi, ma un legame di reciproco sostegno, come fra spirito e materia, uomo e donna, libertà e responsabilità.
La terra, il fare, il prendersi cura, cioè l’inizio del primo libro di Genesi ha precedenza temporale ed è passaggio obbligato, ma deve portarci al logos, alla relazione, all’amore. Non può fermarsi lì, deve avere un suo compimento e un suo fine, come sembra suggerirci Giovanni col suo scritto conclusivo che riprende le stesse parole del primo sostituendo però il bersaglio, cambiando prospettiva.
Un cambiamento che non è contraddizione, ma completamento: la chiusura del cerchio.
L’incipit dà valore al libro, invoglia a continuare, a partire per quel viaggio che è la lettura (o la scrittura). La prima frase dell’ignoto estensore di Genesi nasce probabilmente, nella versione che conosciamo, 5-6 secoli prima di Cristo, col recupero e la formalizzazione scritta di precedenti racconti. Giovanni scrive tardi, sul finire del primo secolo, arrivando per ultimo, dopo le lettere di Paolo ed i sinottici e aggiunge al racconto corale di Marco, Luca e Matteo la sua genialità, la sua originalità e anche la sua testimonianza, il suo “esserci stato”, aver visto e sentito di persona.
In mezzo ai due “in principio” c’è tutta quella che noi chiamiamo Sacra Scrittura, che è il meraviglioso ponte che tenta di unire creatura e Creatore. Possiamo quasi immaginare quei due “in principio” come una grande parentesi che racchiude tutta la straordinaria esperienza della Scrittura.
Ma “all’inizio” ha valore anche filosofico ed esistenziale: sapere cosa c’era prima (e cosa ci sarà dopo) è la domanda che sta alla base di ogni altra domanda, di tutte le filosofie e anche di quello che chiamiamo “scienza”.
I nostri antenati erano convinti che l’età dell’universo si misurasse in millenni, noi ora sappiamo che tutto è iniziato circa quattordici miliardi di anni fa con la grande esplosione che chiamiamo Big Bang. Sappiamo che le galassie si allontanano fra di loro come le schegge di una bomba, in una fuga infinita provata dall’osservazione della luce emessa, e ipotizziamo che ci sia stato un momento iniziale in cui tutto l’universo era concentrato in piccolo spazio. Sappiamo, ipotizziamo…, ma il nostro sapere si va sempre a scontrare con quella semplice parolina: “all’inizio” che ci spinge a chiedere “sì, ma cosa c’era prima?” Questa è la domanda che viene spontanea quando sentiamo parlare di inizi del mondo, dell’universo, della vita. Non lo sappiamo, è la risposta che ci arriva dalla scienza, come ammette Telmo Pievani, studioso di evoluzione che ha partecipato di recente a Scrittorincittà.
La scienza moderna, grazie a Darwin, Mendel, Einstein e agli innumerevoli altri ricercatori, ha spostato continuamente la linea di confine, senza però trovare risposte definitive. Abbiamo cioè fatto passi avanti incredibili, risolvendo tutta una serie di problemi, ma col risultato solo di spostare ogni volta un po’ più in là i termini della questione. Ogni volta che fisici, biologi o astronomi scoprono qualcosa che ci appare convincente non sfugge alla verifica spietata di quelle due parole che aprono Genesi e Giovanni.
Un buon motivo per non sottovalutare troppo, all’inizio di questo nuovo anno, quei due termini italiani, “in principio” che tentano di tradurre il bereshit di Genesi, centrato sulla Terra e l’arché di Giovanni, condensato nella Parola.

Pubblicato su La Guida del 14-1-021