Quarant’anni di Ciapera

Quaranta è un numero importante, che ci dà un senso di completezza e di maturità, soprattutto se lo associamo alla parola “anni”. Lo troviamo già nella Bibbia, dove il numero quaranta indica un periodo pieno e compiuto, più che un tempo cronologico (i quarant’anni dell’Esodo prima di arrivare alla Terra Promessa, i quaranta giorni di Cristo nel deserto). Anche per noi, quarant’anni sono un numero significativo: la vita produttiva del lavoratore, che regala l’accesso alla sospirata pensione, la maturità che raggiungiamo affacciandoci negli “anta”.
Per un giornale, i quarant’anni sono un compleanno importante, che certifica il successo, il radicamento, il riconoscimento sociale.
Quarant’anni è anche tempo di bilanci e di confronti e allora possiamo provare a ricordare com’era la nostra montagna e la nostra vita quarant’anni fa e confrontarla con l’oggi. Non per rimpiangere un passato che non tornerà, ma, al contrario, per rallegrarci di averne vissuto qualche scampolo e per progettare un futuro che sia migliore del presente e magari provi a recuperare qualcosa di quello che abbiamo perso per strada.
Come mi succede spesso quando scrivo, non riuscirò a tenermi fuori dalla storia, e mescolerò un po’ della mia vita personale sullo sfondo di quelle montagne che, per molti di noi, restano una parte importante e insostituibile dell’esistenza e non solo lo sfogo domenicale a compensazione di una quotidianità troppo prigioniera di regole, impegni e doveri.
Quarant’anni fa occupavo gran parte del mio tempo libero a girare per le borgate di bassa montagna, alla ricerca di un posto dove passare la vita, coltivare la terra, allevare animali. Ho impiegato qualche anno anch’io a trovare la mia personale terra promessa (una borgata semidiroccata e abbandonata della media valle Stura) e nel frattempo mi sono innamorato in modo irreversibile della montagna antropizzata e del suo paesaggio, fatto di sentieri, muretti a secco, forni, fontane, case, piloni votivi.
Invece di andare per cime, ho cominciato a girovagare per borgate e non mai più smesso. I primi anni di escursioni mi hanno regalato incontri con alcuni degli ultimi testimoni, uomini e donne spesso di età già avanzata, che nella bellissima varietà dei mille occitani diversi delle nostre valli mi raccontavano storie, mi insegnavano tecniche, mi facevano intravedere spicchi di quel loro mondo che stava per finire.
Molte borgate erano allora già quasi vuote o del tutto disabitate, ma case e tetti erano spesso ancora in piedi, i sentieri erano percorribili, molti prati ancora falciati e puliti. Passando davanti agli usci aperti intravedevo a volte interni di case ordinati e ricchi di suppellettili, come se gli abitanti fossero usciti un attimo prima e dovessero rientrare da un momento all’altro. I piatti a scolare, la giacca appesa, la pentola nel camino. Scene di vita congelata dall’abbandono, dall’emigrazione, magari da una morte improvvisa, ma ancora capaci di testimoniare cura e attenzione e di raccontare una storia.
Ritornare adesso negli stessi posti è spesso triste e frustrante: chi ha nella memoria le immagini di quarant’anni fa di Narbona, di Cauri o di Riolavato di Castelmagno, di Scaletta di Pradleves, di Rantana e Martina di Rittana (e l’elenco potrebbe essere infinito) non può non provare un certo “magone” passando per abitati ridotti a tristi pietraie.
Ma ancora più del degrado delle borgate, trasformate in ammassi di macerie pericolanti da decenni di abbandono e incuria, è triste il cambiamento, anzi, la cancellazione di quel paesaggio rurale di cui erano parte integrante. Il verde di un cupo bosco di invasione, (quella che chiamiamo “buschina”) ha coperto tutta la tavolozza dei colori, mille tracce di caprioli e cinghiali hanno creato una rete di falsi sentieri senza sbocco e interrotto le antiche vie di comunicazione. Un bosco disordinato e invadente, che non ha la dignità della foresta e neppure quella dell’arboreto curato, ma che, soprattutto, ha rubato il posto ai prati, ai campi e ai pascoli, ha reso uniforme il paesaggio e cancellato secoli di lavoro e di cura.
Solo chi ha anima cittadina può rallegrarsi di questa triste wilderness (termine inglese che dovrebbe avere la connotazione positiva della natura intatta e selvaggia, ma che qui significa solo degrado e incuria). L’unico modo di conservazione del territorio è il corretto utilizzo, non certo l’abbandono: un bosco prospera solo se lo si taglia a tempo e ora, un prato se lo si falcia regolarmente, un pascolo se ha il giusto carico di animali. E i tempi e i modo di queste operazioni colturali dovrebbero essere decisi in buona coscienza e autonomia dalle persone che in montagna ci vivono e ci lavorano, non da lontani burocrati prigionieri dello stretto orizzonte dei loro uffici.
Mi ha molto colpito il racconto di un amico che di recente aveva accompagnato un’anziana signora ebrea che tornava dopo decenni nei luoghi dove era stata nascosta per sfuggire ai nazisti, nella bassa valle Stura: lo sguardo perso e spaesato della donna, la malcelata delusione di chi non ritrovava più niente di quel che aveva ben chiaro nella memoria e sperava di poter rivedere un’ultima volta. Dopo oltre mezzo secolo, il posto era quello, le montagne sullo sfondo anche, ma il resto non c’era più.
Non c’erano più le case, i campi, i sentieri, i muretti a secco che sostenevano fazzoletti di orti strappati alla verticalità del pendio, ma soprattutto non c’erano più voci di bimbi, canti di contadini, risa di donne, abbaiare di cani. Non c’era più la vita.
Le case, i prati, i campi e i sentieri sopravvivono di qualche anno appena ai loro padroni, sono anch’essi organismi viventi bisognosi di cure e soprattutto di vita sociale, patiscono la solitudine e l’abbandono.
Una civiltà millenaria è scomparsa in pochi decenni e noi, col nostro vivere e girovagare per le basse montagne ne siamo stati testimoni più o meno consapevoli.
Ogni cosa che finisce lascia un senso di vuoto, ma vorrei evitare la trappola del rimpianto e sottolineare piuttosto gli aspetti positivi del nostro esserci stati, aver visto, aver imparato o intuito qualcosa.
Mettersi gli occhiali rosa per guardare il passato e quelli scuri per il presente e il futuro serve solo a rendere pesante la quotidianità e non rende giustizia alla storia: la vita nelle nostre valli era in passato molto dura e pensarla oggi come idilliaca è un’ingenuità da cittadini lontani dalla realtà. L’analisi dei censimenti di metà Novecento ci parla di borgate di bassa valle senza servizi igienici di nessun tipo, collegamenti adeguati, luce elettrica e non erano rare le famiglie numerose ammassate in un unico “vano promiscuo”, cioè la stalla o il secòu. Dati che fanno capire la voglia di scappare, l’emigrazione, la ricerca di una via di fuga e l’approdo verso lo stipendio sicuro delle fabbriche del fondovalle. Non dobbiamo mitizzare il passato e neppure rimpiangerlo, ma non possiamo neanche essere indifferenti alla perdita di un enorme capitale umano, architettonico, storico, botanico.
Certo, il confronto fra ieri e oggi, con il metro dei quarant’anni, è davvero impietoso, ma questo, a ben pensare, succede anche se ci guardiamo semplicemente allo specchio o ci capita sottomano una foto dei tempi della nostra gioventù. La tentazione di abbandonarsi a tristezza e rimpianto può esserci, ma (sia nel caso dello specchio che in quello della nostra civiltà alpina) penso possa prevalere un senso di consolazione e perfino di felicità. In fin dei conti, in questo strano ventesimo anno del terzo millennio, di cose tristi ce ne sono state già troppe, e allora meglio cercare nelle nostre giornate scampoli di gioia e serenità e sottolineare gli aspetti positivi.
Quando penso a quarant’anni fa, alle mie prime passeggiate nella montagna ancora abitata, agli incontri e agli scambi di parole, e poi agli anni in cui anch’io ho vissuto in una borgata di Demonte, rifacendo muri e tirando su tetti, mi sento felice e privilegiato. La nostra generazione ha avuto la grande fortuna e responsabilità di poter ancora vedere la montagna abitata, sentire le voci, respirare gli odori, raccogliere le testimonianze.
L’aveva capito per primo Nuto Revelli, che quarant’anni fa girava per le vallate con un ingombrante magnetofono per raccogliere le ultime parole dei pochi che ancora resistevano, testimoni di un mondo che stava per essere cancellato dal “progresso”.
Ma ogni morte prevede una resurrezione e anche la civiltà alpina saprà rinnovarsi in forme che oggi magari fatichiamo anche a immaginare. In fondo, non è la prima volta nella storia che è messa a dura prova e sembra soccombere, ma poi ha sempre trovato modi e tempi per rinascere.
Chi muore, poi, lascia un’eredità e la civiltà alpina ci regala tesori immensi di cultura, di tecnica, di sapienza. Tocca a noi raccogliere e non disperdere gli insegnamenti di uomini e donne che ci hanno preceduto sui monti. Di questo “capitale” che ci è stato affidato vorrei ricordare tre aspetti: la grande capacità di usare al meglio tutte le risorse naturali senza mai rovinarle o intaccarne la consistenza (l’enorme differenza fra “usare” e “sfruttare” o addirittura dilapidare), la dimensione comunitaria, la semplicità di vita.
Ognuno di questi tre argomenti richiederebbe tempo e spazio, e magari ci sarà occasione di parlarne nei prossimi quarant’anni. Li ho citati, alla fine di questa già troppo lunga chiacchierata, solo per accennare ai tanti tesori che ci hanno lasciato in custodia i montanari delle valli, che credo possano servire a giustificare il senso di felicità per il lascito e l’impegno di conservarne la memoria e non tradirne lo spirito
Anche per questo è bello festeggiare con gioia questi primi quarant’anni della Ciapera, che attraverso le sue pagine fa vivere la montagna in tutte le sue numerose declinazioni e ha sempre dato spazio, insieme alle cime e alle escursioni, anche alla storia e alla vita vissuta della montagna degli uomini. Ha saputo tenere insieme l’aspetto sportivo dell’alpinismo con la tranquillità delle passeggiate, la geografia delle cime con la storia degli uomini e delle donne che si sono intestarditi a vivere lassù, nonostante tutto.
Un compleanno e un traguardo importante che racconta anche una storia di amicizia di lunga durata.
E amicizia, lo sappiamo tutti, è la parola più importante del vocabolario.

Pubblicato su La Ciapera del dicembre 2020