Don Luciano, una foto e un raccontino

Ci sono persone che sono grandi proprio perché sono capaci di occupare poco spazio, di farsi piccole. Sono i “piccoli” di cui parla Luca nel capitolo 10, quelli per cui Cristo ringrazia il Padre di aver rivelato loro cose inaccessibili ai sapienti e agli intelligenti. Gli stessi “piccoli” per i quali è riservato, secondo altri passi evangelici, il Regno dei cieli.
Don Luciano era una di queste piccole/grandi (e belle) persone e la notizia della sua morte mi ha addolorato e mi ha anche colto di sorpresa. Per una di quelle strane e significative coincidenze (quelle che Jung definisce sincronicità e che sono una delle manifestazioni dei profondi collegamenti che ci uniscono tutti, al di là delle strettoie del tempo e dello spazio) avevo pensato a lui proprio pochi giorni prima, trovandomi casualmente in mano una fotografia del 1966.
Una foto in bianco e nero di una gita del seminario vescovile a Sotto il Monte, il paese natale di papa Giovanni. Una gita d’altri tempi, l’unica che ricordi fatta tutti insieme, noi seminaristi con la giacca delle grandi occasioni, loro, i chierici, con la veste talare e i bottoni rossi, accompagnati dai “superiori”, compreso il Rettore, don Pietro Ristorto (anche lui, come don Luciano, originario di Cervasca e morto in questi giorni).
Io facevo allora la quinta elementare, ero al mio primo anno di seminario, don Luciano era già alla fine del lungo percorso, quasi alle soglie dell’ordinazione. In quei tempi lontani, nel grande edificio di via Amedeo Rossi eravamo centocinquanta e di lì si usciva molto raramente. Senza neppure conoscere il significato della strana parola inglese che adesso ci imprigiona tutti, eravamo già allora in una sorta di “lockdown” permanente, per cui l’annuale gita primaverile era un’occasione attesa e importante. Un pellegrinaggio festoso che spezzava i ritmi sempre uguali delle altre giornate, fatte di studio, di silenzi, di lunghi corridoi percorsi in fila per due.
La reclusione da pandemia regala il tempo per rovistare nei documenti e nei ricordi di epoche ormai lontane e così mi sono trovato in mano la vecchia foto proprio nello stesso giorno in cui mi era capitato di leggere sul bollettino parrocchiale la notizia della positività al virus di don Luciano. Speravo che si trattasse di una forma non grave e che il tutto si potesse risolvere con l’obbligo della quarantena e avevo addirittura pensato di fargli avere in qualche modo una copia della foto, insieme a un mio raccontino di qualche anno fa. Un modo come un altro per far sentire la propria vicinanza e per aiutare a passare in qualche modo il tempo sospeso della forzata solitudine in attesa della guarigione.
Volevo fargli avere un mio scritto, di quelli destinati a restare parcheggiati nel cassetto, perché pensavo che ci fosse una certa affinità fra il protagonista della storia e l’amico prete. In realtà, con don Luciano ci siamo incontrati pochissime volte, nonostante la vicinanza delle rispettive abitazioni e i lontani trascorsi comuni, ma può capitare che ci si senta in profonda sintonia con persone che si sono appena sfiorate, mentre magari fatichiamo maggiormente a legare con altri che frequentiamo d’abitudine e con cui dividiamo le giornate. Don Luciano era una di queste persone “sfiorate”, che incontravo molto poco, ma che sentivo profondamente vicino e amico in quelle pochissime occasioni in cui, a distanza di anni o decenni, ci siamo incrociati. Mi era capitato tempo fa passeggiando per le strade di Vignolo di incontrarlo sulla porta di casa e mi aveva fatto molto piacere il suo saluto affettuoso e il fatto che mi riconoscesse subito e mi trattasse come un vecchio amico, come se non fosse passato tanto tempo e tanta vita dal precedente incontro.
Il raccontino che volevo fargli avere era la mia personale (e discutibile) interpretazione della “vera” storia di Barnaba, il primo e più importante compagno di san Paolo nella predicazione e nei viaggi. Un personaggio (ma io preferisco il termine “persona”) che credo avesse molti punti in comune con il carattere di don Luciano e che io associavo, inconsciamente, proprio alla figura dell’antico compagno di seminario.
Barnaba lo conosciamo attraverso gli Atti del Apostoli, scritti da Luca, che, pur concentrando l’attenzione su Paolo ne fa, come sua abitudine, un ritratto preciso e attendibile. Dal lungo racconto dell’evangelista emerge la figura di un uomo capace di essere presente senza mai essere invadente, di agire senza mai apparire, di lavorare con efficacia e intelligenza senza mai mettersi in mostra, anzi lasciando tutto lo spazio agli altri. Senza il quasi sconosciuto Barnaba non ci sarebbe stato il san Paolo che tutti conosciamo e si dovrebbe riscrivere tutta la storia religiosa e civile di buona parte del mondo. Tutto quello che è venuto dopo, tutto quello che siamo, tutta la nostra civiltà è frutto, infatti, di quella manciata di decenni del primo secolo della nostra era e di un pugno di persone. Fra queste, il quasi sconosciuto Barnaba, capace di giocare un ruolo determinante tenendosi sempre sullo sfondo e fuori dai riflettori.
Senza esserne del tutto cosciente, avevo associato alla figura dell’apostolo poco noto protagonista del mio raccontino proprio l’immagine di quel giovane chierico che avevo ritrovato nella foto del 1966, per quella che ritenevo un’affinità di carattere, di scelte di vita, di modo di essere.
Non sapevo nulla delle sue reali condizioni di salute e della gravità della situazione e la notizia della sua morte mi ha colpito e addolorato. La morte lascia sempre uno spazio vuoto, il rimpianto di frasi non dette, di cose pensate e non fatte, di amicizie sfiorate e non abbastanza “coltivate”.
Ci consola la speranza che ci sia un’eternità di tempo per rimediare alla mancanza e la certezza che la relazione di affetto e di amicizia continui e anzi, si faccia più profonda e vitale.

Pubblicato su La Guida del 10 dicembre 2020