Uscire dai propri schemi mentali

La lettera del dottor Danilo Verra a commento di un mio precedente articolo pubblicata su La Guida della scorsa settimana mi ha fatto molto piacere, e sono davvero grato al medico anestesista non tanto per gli apprezzamenti della parte iniziale, quanto per le critiche motivate e anche severe del seguito.
Nella mia ormai lunga esperienza di occasionale assemblatore di parole e divagazioni su svariati argomenti mi è capitato spesso di suscitare obiezioni e, a volte, anche reazioni indignate da parte di lettori, a cui, se riesco, rispondo personalmente. Evito in genere di usare per la risposta lo spazio eventualmente concesso sul giornale per una serie di motivi: non voglio abusare dell’ospitalità del settimanale, non amo i dibattiti di stile “televisivo” in cui si urla tanto e si ascolta poco, si parla “contro” invece che “con” e si considera l’interlocutore come un avversario da battere invece che un prezioso alleato con cui arrivare insieme a una maggior consapevolezza. Ma soprattutto, sono convinto che chi legge abbia sempre diritto all’ultima parola: come capita anche per i libri, l’autore è ospite del lettore, deve essere grato per l’accoglienza e la pazienza e, una volta messo il punto finale al suo scritto, deve farsi da parte e scomparire.
Vorrei però in questa occasione approfittare della lettera del dottor Verra per qualche considerazione generale, che credo possa andar oltre una “risposta” alle critiche e obiezioni, che considero motivate. Per uno scambio personale di opinioni o per chiarire certe frasi (che nello spazio ristretto di un articolo possono tradire le intenzioni o essere fraintese) sono sempre lieto di usare la comodità della posta elettronica, se il dottore (o qualsiasi lettore) vorrà scrivermi (mail@leleviola.it).
Innanzitutto ci tengo a ringraziarlo di cuore: ognuno di noi vede il mondo dal suo punto di osservazione particolare e ha bisogno di ascoltare quello dell’altro per uscire dai confini ristretti della propria visione. Scrivo sempre quel che penso, ma non lo faccio mai con l’intenzione di convincere qualcuno, tanto meno di mancargli di rispetto: coltivo il dubbio, sono sempre contento di “cambiare idea” e penso che vedere le cose da una prospettiva diversa dalla propria sia sempre un’opportunità. In modo particolare quando chi scrive è esperto nel senso proprio e alto del termine, cioè ha avuto modo di fare esperienza diretta, come il dottor Verra.
Forse per i giovani lo spazio del confronto può arrivare dai social e passare attraverso le onde elettromagnetiche di telefonini e tablet. Per quelli come me che hanno radici nel passato millennio, la carta, la parola scritta e soprattutto i giornali restano determinanti. Nei nostri paesi il ruolo dei settimanali locali è fondamentale non solo per la necessaria manutenzione del sistema democratico, ma anche per sentirsi “comunità”.
Leggere e scrivere è indispensabile non tanto per pensare e per costruirsi una propria opinione, ma soprattutto per cambiarla. Un diverso punto di vista permette di uscire dai propri ristretti schemi mentali e di vedere le cose da un’altra prospettiva e da una diversa angolazione. Nello specifico, è evidente che l’esperienza di questi mesi vissuta in prima persona nell’occhio del ciclone da un medico rianimatore è drammaticamente diversa da quella di un tranquillo pensionato, come il sottoscritto, felice fruitore di una casa in campagna che ci ha permesso di vivere con serenità anche i giorni della reclusione forzata.
E, visto che sono incappato senza volerlo in questo sostantivo, ne approfitto per dire che “serenità” è forse proprio una delle parole importanti che dovrebbero sostenerci in questo periodo. Uno degli effetti negativi dell’epidemia e dei provvedimenti per contenerla è proprio quello di aver avvelenato le relazioni reciproche, creando un nervosismo diffuso e un’atmosfera di contrapposizione, un tutti contro tutti che non fa bene a nessuno.
Dobbiamo tutti sforzarci di ritrovare la serenità personale e collettiva e considerare il rispetto per l’interlocutore un imperativo categorico. Ognuno di noi ha una propria idea e immagina una sua personale strategia per uscire dalla crisi e questo vale tanto per gli inesperti dichiarati, come il sottoscritto, quanto per chi ha titoli accademici e incarichi prestigiosi. Ai mondiali di calcio o di ciclismo siamo tutti commissari tecnici della Nazionale, ora abbiamo tutti una nostra visione e una personale soluzione al problema che ci affligge. Senza contare la naturale tendenza di noi italiani a dividerci in due schieramenti opposti e a vedere il mondo in bianco o nero dimenticando tutta la scala dei grigi: Coppi e Bartali, destra e sinistra, Iuve o Toro, ora anche Burioni o Zangrillo, Crisanti o Caumés.
Ridurre la complessità a due sole opzioni o peggio ancora personalizzare i problemi non è un buon modo per risolvere situazioni difficili. Uscire dalle crisi è un cammino in salita e le scorciatoie, come ben sa chi cammina in montagna, spesso sono controproducenti. Credo sia necessario usare pazienza e disponibilità, continuare a parlare e discutere con schiettezza e rispetto, confrontare le nostre idee con quelle degli altri ed essere sempre disposti a cambiarle.
Il dibattito deve essere un modo per costruire insieme, portando ognuno la propria esperienza, e non uno sfoggio di dialettica o una sfida a braccio di ferro. Ma più ancora che continuare a parlare è importante saper ascoltare chi ha fatto esperienza. Solo il confronto con idee e situazioni diverse ci permette di uscire dalla prigione dei propri schemi mentali e imparare a mettersi nei panni degli altri, usando quella bella facoltà che chiamiamo immaginazione e che dovremmo tutti coltivare con costanza.
Immaginarsi nei panni altrui è un arricchimento e una ginnastica salutare che porta inevitabilmente al rispetto, alla comprensione e a quella serenità di rapporti di cui parlavamo prima. Serenità che è sorella minore della pace, che non è solo assenza di guerra, ma condizione prima per una vita buona, piena e in salute.
Mettersi nei panni dell’anziano ospite di una casa di riposo, del commerciante stretto fra debiti, normative e paure, delle tante persone prigioniere della solitudine e della paura, del precario che ha perso il lavoro e, perché no, anche del politico o dell’amministratore che devono prendere decisioni difficili.
Per me, la lettera del dottor Verra è stata l’occasione di mettermi, per un attimo, nei panni dei tanti operatori della sanità che hanno vissuto questi drammatici mesi primaverili in modo molto diverso dal mio e per questo, oltre che per l’opportunità di riflettere e di rivedere le mie idee, lo ringrazio di cuore.

Pubblicato su La Guida del 22-10-020