Difficoltà di comunicazione

Fra Dio e la sua creatura c’è qualche difficoltà di comunicazione.
La cosa non stupisce, è esattamente quello che capita fra persone che si amano: fra genitori e figli, marito e moglie, fratelli e sorelle, a volte anche fra colleghi o amici veri. L’intimità della relazione, la frequentazione quotidiana, la vicinanza non facilitano lo scambio di parole. Spesso è più facile confidarsi con un estraneo e questo spiega l’esistenza di professioni che si basano sull’ascolto e la fortuna di gruppi in cui si scambiano parole e idee. Psicanalisti, confessori, associazioni varie ci permettono di comunicare attingendo agli strati più profondi del nostro io, cosa che non ci viene spontanea e facile proprio con le persone che dividono con noi gioie e pene dell’esistenza quotidiana.
Con loro, con le persone cui siamo più legati, sembra separarci una qualche barriera impermeabile alle parole, che forse è costituita dalla stessa materia che ci unisce. Nel senso che quel cemento che ci lega è anche ostacolo, a volte insormontabile, allo scambio verbale.
Lo stesso, credo, valga fra Dio e la sua creatura, con un’intimità sempre sfiorata e mai raggiunta e con una comunicazione che non è facile tradurre in parole e incasellare in grammatiche, frasi, periodi.
La difficoltà di parlarsi c’è in entrambi i sensi.
Noi facciamo fatica a rivolgerci a Dio senza usare espressioni prefabbricate, senza trasformare il dialogo in monologo, senza farlo scadere in “preghiera”, senza assillarlo di richieste e recriminazioni. Lui, allo stesso modo, sembra far fatica a spiegarsi, a usare le parole come terreno di incontro.
Una fatica che dura da millenni e che ha prodotto quel tentativo di dialogo che chiamiamo Sacre Scritture.
La cosa è complicata anche dal fatto che Dio non è scrittore. Lui scrive nelle nuvole, nel profilo dei monti, nel volo degli uccelli, anche nella meraviglia del primo sorriso dei neonati e nello sforzo di fiducia dell’ultimo sorriso dei vecchi. Ma non tiene in mano la penna, non si fa imprigionare dalla carta, intrappolare da dizionari e grammatiche.
Di Cristo si racconta che abbia tracciato un’unica volta qualche segno nella sabbia, prima di pronunciare una di quelle frasi che non si dimenticano, sul peccato e le pietre, salvando la vita a una donna. Non molto, come opera letteraria, e sul supporto più labile che si conosca, quasi a voler rifiutare a ogni costo la prigione del definitivo.
Quelle che proclamiamo parole di Dio sono scritte da uomini, improbabili traduttori di un linguaggio inarrivabile. Certo, con l’aiuto di quel vento portante che chiamiamo Spirito, ma pur sempre con i limiti inesorabili dell’umano.
Che le Scritture siano testi ispirati non lo può mettere in dubbio neanche un barbét o un agnostico (termini, entrambi, in cui mi riconosco, pur preferendo il primo, che mi è rimasto appiccicato da ormai quasi mezzo secolo, dalle parole sconsolate di mia nonna).
Solo chi non ha mai suonato, non ha mai scritto, non ha mai avuto pensieri impensati può negare che esista uno Spirito che ci attraversa e fa nascere melodie, storie, poesie, illuminazioni.
E quelli che abbiamo rinchiuso nel recinto delle Sacre Scritture non sono certo gli unici scritti ispirati dallo Spirito, che per definizione, soffia dove vuole e anima non solo la penna, ma il canto, gli strumenti musicali, l’architettura, la pittura, gli scambi di parole. Non è soggetto a copyright e non si fa imprigionare in “canoni”.
Siamo sempre noi uomini, che, a posteriori, abbiamo fatto una cernita e costruito il canone in cui sono codificate le Scritture talmente diverse e preziose da meritarsi la maiuscola e l’attributo di sacre.
È stata la comunità a mettere insieme nei secoli il testo che chiamiamo canonico.
Una scelta affidabile: l’infallibilità del popolo. Con tutto il rispetto per ruoli e persone, tutt’altra cosa della pretesa infallibilità di un vecchietto vestito di bianco.
Un popolo è infallibile proprio perché fatto da persone che sanno di poter sbagliare: dalla sommatoria di errori arriva una certezza di verità conquistata a fatica, nel corso di secoli, per aggiustamenti successivi. E con l’assistenza discreta di quel vento portante che soffia dove vuole, ma sa benissimo dove intende arrivare.
Per questo il cosiddetto “canone”, cioè l’insieme dei testi “sacri” ritenuti fondanti, i vari libri dell’Antico Testamento, i quattro Vangeli, le lettere di Paolo e pochi altri, risulta convincente. Basta una lettura superficiale per vedere l’abisso di differenza fra Marco, Luca, Matteo, Giovanni e i cosiddetti apocrifi, che tornano periodicamente di moda.
L’idea di un qualche testo sconosciuto che, una volta ritrovato risolva finalmente dubbi e problemi dell’umanità, va alla pari con quella di una verità nascosta accessibile solo a pochi eletti: due stupidaggini parallele. Le Scritture sono lì, disponibili a tutti (per questo siano benedetti Lutero, Gutenberg e compagni) e ognuno può e deve pescare nel pozzo col proprio secchio.
E le Scritture, con le loro meraviglie, ma anche con le loro incongruenze, con gli eccessi, con le oscurità, sono la dimostrazione di quanto sia difficile per Dio arrivare a spiegarsi, a farsi capire per quello che è realmente, usando, oltre ai colori delle albe e dei tramonti, anche parole di uomo. Parole che sono comunque contenitori incapaci di abbracciare il contenuto, confini che cercano di definire l’indefinibile.
Per questo, credo, non si debba cercare la sua immagine in singole frasi e neppure in discorsi o episodi. La sua figura emerge solo dall’insieme, alla distanza, e sempre sfumata, accennata. Le parole aiutano l’intuizione, ma non sono ponti sufficienti per lo spazio che ci separa. Anzi, se le prendiamo isolate dal contesto storico, culturale, antropologico possono essere ostacoli alla comprensione. Come medicine prese a caso, possono “nuocere gravemente alla salute”.
In questa impossibilità reciproca di colmare lo spazio che ci separa, ci aiutano le storie, i racconti. Come fa un genitore col bambino, accompagnandone la crescita con fiabe adeguate alle diverse età.
Nessuno si sognerebbe di leggere Darwin o Freud al figlio piccolo per farlo addormentare la sera, meglio parlare di case di marzapane, sassolini per segnare la via, streghe cattive e fatine buone. E i primi racconti di Dio parlano appunto di mele e serpenti, di terra impastata e alberi misteriosi. Immagini che resteranno nella memoria e accompagneranno la crescita del singolo e dell’umanità, permettendo per ogni età una lettura differente e mai definitiva, aprendo sempre nuovi orizzonti alla comprensione.
Ma le storie non bastano, c’è voluto l’esempio, la vita. È anche questo, forse, il senso e la tremenda necessità di quella che chiamiamo “incarnazione”, la scelta obbligata di un Dio incompreso di mandare il Figlio a dare una spiegazione definitiva. E anche il resoconto di quella vita ha dovuto farsi in quattro nell’impossibile tentativo di definire l’indefinibile.
In tribunale bastano due testimoni; per raccontare la storia di quell’Uomo non è bastata neppure una trinità di scrittori, ci son volute quattro teste e quattro penne diverse. Marco, tanto genuino da apparire ingenuo, Matteo, l’ebreo e il pratico, Luca, il greco e il dotto, Giovanni con l’essenzialità dei vecchi ancor innamorati e la memoria precisa degli smemorati. E c’è voluto anche l’incoraggiamento dell’attore protagonista, quel “ciò che legherete sarà legato” che legittima non una ipotetica e presuntuosa infallibilità papale, ma la stesura dei Vangeli. Regala ai quattro timidi aspiranti scrittori l’avallo per farsi portavoce di colui che solo aveva parole di vita eterna. Un compito non da poco, che rendeva necessarie quelle frasi di incoraggiamento.
I Vangeli sono quattro, diversi e complementari. Ma anche Bibbia è sostantivo plurale, non è il libro, ma i libri.
La nostra fede nasce plurale. Nasce dalla benedizione della varietà, che include la contraddizione, che non elimina il dubbio.
Il problema è il passaggio da una fede nata plurale a una religione che ha come unica dimensione il singolare: “la” religione. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe lontano, abusando di spazi e tolleranza di chi ospita e legge.
Meglio restare sul tema della difficoltà di comunicazione che è alla base di ogni testo scritto e quindi anche di quelli sacri. La scrittura è un rimedio: si scrive sempre per incapacità di comunicare altrimenti, per sfiducia nella memoria, per la necessità di darsi il tempo di riflettere. Si scrive perché, in fondo, pensiamo con le mani e i piedi e per mettere in moto il cervello dobbiamo camminare o tracciare segni.
Spesso scriviamo a qualcuno quando abbiamo perso la speranza di raggiungerlo con la voce. I fidanzati dopo un litigio, affidano alla carta il tentativo di spiegarsi e di incontrarsi di nuovo, quando le parole hanno ormai fallito ogni riconciliazione e sembrano buone solo ad allontanare. Lo stesso, mi pare, sia capitato a Dio nei confronti della sua strana creatura. Ma Dio non è scrittore, deve usare mani di uomo, può solo aiutare l’anonimo estensore con il soffio del suo Spirito.
Le Scritture sacre nascono da questa cooperazione fra uomini e Spirito, uno spartito suonato a quattro mani. Non tanto “parola di Dio”. Piuttosto tentativi dell’uomo di cercare un approccio verso il divino. E, dall’altra parte, l’analogo sporgersi di Dio verso la sua creatura, per cercarne un contatto.
Una ricerca di dialogo, di costruirsi un alfabeto comune.
Perché, ritornando a quel che si diceva all’inizio, a volte la comunicazione più difficile è proprio con le persone che più si amano.

Ps. Queste divagazioni prendono spunto da miei pensieri vaganti nati in seguito alla discussione che ha concluso l’incontro biblico di sabato 25 guidato da Angelo Fracchia a Mambre. Nel ringraziare Angelo e tutti gli amici presenti per le loro riflessioni stimolanti, ci tengo però a non coinvolgerli, loro malgrado, in derive di pensiero di cui non hanno responsabilità. Le eresie son tutte mie… lele dicembre 017