Allevare deficienti

Da bambino non ricordo di essere mai stato accompagnato a scuola. Neppure alle elementari. Mia mamma era maestra e lavorava nello stesso edificio, in un’aula vicina alla mia, ma i nostri percorsi quotidiani non coincidevano quasi mai. Il “viaggio” per arrivare in classe e quello, uguale ma diverso, per tornare a casa era forse la parte più bella della giornata scolastica. Senz’altro la più avventurosa, almeno all’andata, visto che al ritorno la fame faceva accorciare percorsi e abbreviare tempi. Al mattino, invece, la strada era variabile a seconda delle stagioni, della compagnia (da cercare o evitare), delle vetrine dei negozi, del clima.
Se la retta è la linea più breve per unire due punti, noi inventavamo ogni giorno il suo esatto contrario, cercando di allungare e rendere diverso ogni volta un percorso che aveva per punti fissi gli estremi di partenza e arrivo e in mezzo un’infinità di variabili.
Giri tortuosi, scorciatoie, deviazioni, bialere, vicoli, scalinate. Qualche volta le soste per osservare i lavori dei “grandi”. Le ceste di vimini di Cin, l’incudine del fabbro, la pialla del falegname, i trucioli metallici dell’officina meccanica, ogni tanto perfino il lavoro del maniscalco che ferrava gli ultimi muli nel vicolo vicino a san Magno.
Se, cosa davvero rara, c’era in tasca una moneta da cento lire, si passava dal giornalaio a comprare una bustina di figurine, sperando di trovare quelle mancanti per finire l’album.
Le altre, i doppioni, servivano per giocare con i compagni nell’intervallo o nel tempo concesso dall’attesa della campanella d’ingresso.
Per strada si incontravano amici e compagni, con cui si condividevano deviazioni e interessi. A volte si scappava, quando comparivano bambini più grandi, quelli di quarta o di quinta, che a noi allora sembravano immensamente cattivi e robusti. Qualcuno era davvero manesco e si sfogava con noi più piccoli, l’unica soluzione era scappare veloci o fare gruppo.
Eravamo bambini fortunati: coi piedi sempre freddi e le ginocchia sbucciate, maestri severi e regole chiare, ma con una libertà e un’autonomia che ora non esiste più. Genitori ed educatori pretendevano molto, a partire dal rispetto, ma davano fiducia, ti permettevano di fare, sbagliare, provare. In altre parole, crescere.
Ora non solo i bambini, ma i ragazzi delle medie sono considerati per legge deficienti incapaci di qualsiasi autonomia e gli stessi genitori sono soggetti giuridicamente irrilevanti se neppure una loro liberatoria scritta, secondo i giudici di Cassazione, ha un fondamento giuridico.
Cosa che pare “giuridicamente” strana, visto che si presuppone che i genitori siano maggiorenni in grado di intendere e volere, responsabili dei propri figli e delle proprie scelte.
La ministra Fedeli si è affrettata a dire ai genitori che se ne facciano una ragione, che se proprio non possono mandino i nonni a ritirare il pacco nipoti, che “l’autonomia si può sperimentare di pomeriggio” a distanza di sicurezza dagli edifici scolastici. E ha ripetuto una litania che sentiamo spesso, cioè che “questa è la legge”, bisogna rispettarla e adeguarsi.
I ministri, si sa, hanno molto da fare e non sempre possono avere le idee chiare sui termini che usano. Era già capitato che appena nominata la neoministra facesse confusione con la parola “laurea”- la sua – usata forse a sproposito e che per giustificarsi dicesse che in fondo una laurea non serve poi a molto. Cosa senz’altro vera, come sanno i giovani laureati disoccupati o costretti a emigrare, ma non certo una buona pubblicità per l’università italiana. Come se il responsabile di un’azienda esordisse dicendo pubblicamente che i prodotti che vende sono del tutto superflui e inutili.
Il termine legge dovrebbe indicare un atto approvato dal Parlamento, ratificato dal Presidente della Repubblica e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. L’espressione della volontà del popolo, attraverso i suoi rappresentanti eletti.
Il “sequestro” dei ragazzi non accompagnati all’uscita da scuola nasce, invece, per una discutibile sentenza della corte di Cassazione. Sentenza e legge non sono sinonimi.
E questo è, secondo me, il vero nocciolo della questione.
Tutti concordano sul fatto che le leggi, in Italia, siano troppe. Ma il problema non è tanto l’eccesso di leggi, quanto il proliferare di tutte quelle norme che vere e proprie leggi non sono, ma ne hanno il peso, la sostanza e l’ingombro. Oltre ai classici decreti legge che rendono perenne lo stato di necessità e urgenza che dovrebbe motivarli, ci sono tonnellate di circolari, decreti attuativi ed esplicativi, commi, paragrafi. Un coacervo di regole che si sovrappongono, si contraddicono, si smentiscono, tanto da dare l’impressione non solo della semplice stupidità burocratica, ma di una precisa volontà di rendere complicate e incomprensibili anche le cose semplici.
All’eccesso di leggi proprie e improprie si aggiunge, poi, il fatto che sono scritte malissimo, in tutti i sensi che possiamo dare al superlativo assoluto. Grammatica e sintassi approssimative, ma soprattutto un linguaggio astruso, termini obsoleti o inusuali, vocabolario incerto. Il risultato è l’obbligo di interpretazione e traduzione, come se fossero scritte in qualche ignoto dialetto esotico, in caratteri cuneiformi o in geroglifici. Così finisce che le norme non si applicano, ma si creano e che i giudici, invece di fare il loro lavoro, debbano improvvisarsi legislatori. Con danni per tutti, ma soprattutto per il sacrosanto principio della separazione dei poteri che da sempre tiene in precario equilibrio le democrazie.
Ogni sentenza che diventa “legge” è sintomo di un cattivo funzionamento dello stato e di un ribaltamento delle regole democratiche. I giudici le leggi non devono farle, ma applicarle così come sono. I parlamentari hanno il dovere di proporre e approvare leggi semplici, utili, comprensibili. E magari di rottamare quelle in eccesso.
I genitori hanno il diritto di decidere responsabilmente l’educazione dei figli (arte molto difficile e delicata, in cui è necessario dosare presenza e distanza, autorevolezza e fiducia) senza l’intervento di uno stato invadente e pasticcione. La ministra dell’Istruzione potrebbe utilmente concentrare tempo, energie e parole sulla scuola e non su quello che fanno genitori, nonni e bambini dopo il termine delle lezioni.
Educare alla libertà e all’autonomia è un rischio necessario e un fattore di crescita. Altrimenti alleviamo deficienti.
Ognuno deve fare la sua parte: genitori, scuola, associazioni, comunità, comuni. Senza invadere il campo altrui e senza pretendere di dettar legge.
Soprattutto attraverso le sentenze dei giudici.

Cervasca, 27-10-017 Pubblicato su La Guida del 2-11-017 con altro titolo