Una Speranza vecchietta

Charles Péguy doveva essere un tipo interessante, che mi sarebbe proprio piaciuto conoscere. È morto giovane, come tanti altri: corpi e vite a fermare sciami di pallottole insensate nella battaglia della Marna, durante quell’inutile macello che è stata la prima guerra mondiale. Aveva poco più di quarant’anni, un’età che lui definiva “terribile, perché è l’età in cui diventiamo quello che siamo”.
Si era arruolato volontario, lasciando a casa una moglie e dei figli molto amati; non credo per spirito guerrafondaio e patriottico, ma per eccesso di coerenza e intransigenza di condivisione. Forse anche per ingenuità di speranza, illudendosi, com’è capitato a molti, che quella prossima ventura sarebbe stata “l’ultima guerra”, premessa di un’era di pace. Lui, che poco prima aveva scritto un saggio intitolato “L’argent”, non aveva capito che a muovere i fili di ogni conflitto è sempre quel denaro di cui, pure, aveva parlato con voce profetica.
È stato uno strano cristiano e uno strano socialista, e anche uno strano scrittore, in bilico fra poesia e saggistica, tra teologia e storia. Incapace di ipocrisie e di parole compiacenti, ha portato a spasso la sua intelligenza nella terra di nessuno delle verità scomode, troppo cristiano e “reazionario” per essere tollerato dai socialisti e troppo rivoluzionario e intransigente per essere digerito dai cattolici.
A rendermelo simpatico, anche la sua totale mancanza di spirito imprenditoriale: è riuscito a far fallire una libreria a due passi dalla Sorbona e una rivista inizialmente ben avviata e ha passato tre anni a lavorare a un’opera su Giovanna d’Arco vendendone una sola copia. Un record, credo, anche per l’affollata società degli scrittori sfigati.
Ma, evidentemente, il suo obiettivo non era quello di arricchirsi con la penna e le parole: “Je sais que je fais un métier misérable”, aveva confessato, ben conscio della sottile, ma profonda differenza fra gli aggettivi povero e miserabile.
Il tema proposto per il primo Granello 2017 è stato per me l’occasione per un approccio di conoscenza con questo autore, che rientrava nella vasta categoria dei nomi già sentiti, ma di fatto sconosciuti.
Nelle pagine dello scrittore francese (lette in ordine casuale e senza pretese di completezza) mi sono imbattuto, con mio grande stupore e piacere, in strane coincidenze e convergenze di pensieri, parole e immagini. Il piacere è quello del ritrovarsi, come capita quando nello scritto di un altro scopriamo, messi in bella forma, i nostri abbozzi mentali. Lo stupore è di aver casualmente usato, con quasi un secolo di ritardo dall’originale, un paragone simile. Anch’io ho sempre immaginato fede, speranza e carità, come tre figure femminili, tre gemelle diverse, e ne avevo scritto proprio sul Granello del giugno 2012, riportando un mio appunto di diversi anni prima. E anch’io, senza sospettare il tardivo plagio, avevo espresso la mia simpatia e preferenza per la meno blasonata delle tre, la speranza.
Questo conferma il fatto che si scrive sempre il già scritto, si scopre il già scoperto e si pensa il già pensato. Conferma che dopo esserci aperti a fatica un varco fra la vegetazione, ci ritroviamo sempre su sentieri già tracciati e percorsi, con largo anticipo e maggior chiarezza, da altri camminatori dell’esistenza. Conferma, anche, che fili invisibili ci legano a coloro che ci hanno preceduto e aperto la strada. O, riprendendo un pensiero dello stesso Péguy, che la morte non taglia alcun filo (si passa semplicemente nella stanza accanto), anzi, magari è perfino capace di riannodarli, di creare legami e incontri inaspettati con sconosciuti predecessori.
Nei suoi Misteri, Péguy fa parlare (cosa allora insolita) lo stesso Dio, che diventa voce narrante e si stupisce della capacità dell’uomo di sperare, nonostante tutto. Un Dio che trova “normale” fede e carità, ma che prova meraviglia per l’ostinazione e l’abnegazione del boscaiolo che si ammazza di fatica nel freddo del bosco d’inverno pensando ai propri figli. E sull’immagine del taglialegna, Péguy costruisce il suo inno e la sua teologia della speranza: “la piccola e giovane speranza… cuore della libertà”.
Una speranza “bambina da nulla”, ma capace, lei sola, di “attraversare i mondi”, di trascinare le sorelle e di farsi carico di tutto “perché la fede non vede che quello che è – e lei vede quello che sarà – la Carità non ama che quello che è – e lei ama quello che sarà”.
Per questo, conclude, “Dio ci ha fatto speranza”.
Immagini potenti e poetiche, col fascino della Speranza bambina descritta con parole capaci di farcela vedere mentre, scolaretta, si aggrappa alle gonne delle sorelle maggiori.
Mi ha fatto piacere ritrovare, nelle parole poetiche di Péguy, una lontana eco dei miei confusi e arruffati pensieri di una decina d’anni fa. Un piacere più grande del sottofondo di vergogna per il confronto impietoso fra la forza e la nitidezza della sua speranza giovinetta e le movenze un po’ goffe e impacciate della mia attempata copia tardiva.
Nella mia prosaica immaginazione, infatti, non vedevo la speranza come una bambina, ma come una donna rotondetta, col viso sorridente, ottimista per natura ma, soprattutto, per scelta e necessità. Più simpatica delle sorelle fede e carità, la prima imprigionata nel suo piglio sicuro e distaccato da rigorosa maestra d’altri tempi, la seconda col vestito da crocerossina e la patina mielosa della bontà ostentata e obbligatoria.
A distanza di oltre un decennio, l’immagine è di nuovo cambiata. Forse è questione di invecchiamento parallelo (col tempo anche le virtù invecchiano), ma ora vedo la speranza come una persona anziana. Una bella vecchietta, a cui gli anni hanno regalato rughe senza poter cancellare la luce degli occhi e la grazia del corpo.
In questo, la penso in maniera diversa dallo scrittore francese. Una Speranza bambina (pur essendo immagine intrigante, poetica e potente) è sinonimo di ingenuità e di illusione. La speranza facile di chi non ha ancora visto troppe cose brutte.
La Speranza vecchietta, invece, spera nonostante abbia vissuto il tramonto delle speranze, la morte delle illusioni, la decrescita del piacere e della forza, il declino della salute. Una speranza che è una forma di resistenza e di resilienza, una strategia di sopravvivenza indispensabile per chi non può permettersi troppa fede e arriva, al massimo, a un po’ di “buonafede”. E preferisce evitare lo stucchevole nome di Carità a favore del più simpatico e polivalente concetto di Amore. O, meglio ancora, di Amicizia, termine che ci permette pure di conservare il genere femminile e di non cadere in facili equivoci o abusi.
Una Speranza che ha visto e attraversato il male, ma sa (o almeno spera) che c’è qualcosa di più forte e di più definitivo della sofferenza e della morte. E per questo, fa da stampella alla Fede, che invecchiando perde la sua aria di sufficienza e il suo piglio sicuro e deve aggrapparsi alla sorella per procedere zoppicando.
Una Speranza vecchietta, che sa anche che non può più fare da sola e che ha bisogno dell’aiuto degli altri e diventa una virtù condivisa, andando a braccetto con la gemella Agape/Carità.
Le tre sorelle, Fede, Speranza e Carità non sono invenzione recente. Il copyright è addirittura di Paolo, nelle prime righe di quello che, con molta probabilità, è il più antico scritto del Nuovo Testamento, la Prima Lettera ai Tessalonicesi.
Molto prima che la Chiesa le imprigionasse nel ruolo stereotipato di virtù teologali, Paolo ci aveva regalato, nel suo incipit di scrittore sacro, questa sua trinità, accoppiando ognuna delle tre sorelle con una parola inaspettata, uno strano attributo.
La fede è ergon, azione, opera, attività: un qualcosa di concreto, molto più vicino a un fatto che a un’opinione. La carità (o amore nella sua versione di agape) è kopos, una faticaccia, uno sforzo, un impegno gravoso. La speranza è upomoné, capacità di sopportare, di attendere, di resistere (1 Tes, 1,3).
Niente di più lontano dall’immagine di speranza ingenua e illusa o da ogni atteggiamento di facile ottimismo. Una speranza robusta, con le spalle larghe, distante dalle terapie autoconsolatorie del pensare positivo, cosciente che il lieto fine, se ci sarà, sarà per molti oltre quel confine che chiamiamo morte.
Una speranza comunque “irriducibile”, come la bambina di Péguy, forse perché capace di invecchiare senza perdere e senza tradire la dimensione dell’infanzia. E anche per questo, in grado, a volte, di operare miracoli.
D’altra parte, sappiamo tutti che le età estreme tendono a convergere e che da vecchi si ritorna un po’ bambini, così si può pensare che le due immagini – la Speranza bambina e quella vecchietta – non si contraddicano, ma piuttosto si completino a vicenda.
E allora, per affinità anagrafica, preferisco tenermi la mia Speranza attempata, perché è comunque consolante invecchiare insieme, come capita fra coniugi o amici, perdonandoci a vicenda rughe, lentezza e segni dell’età che avanza. Una coetanea preziosa, anche perché, per una sorta di stramba compensazione dei miei giochi di immaginazione, mentre Speranza invecchiava con me, la sorella Fede, al contrario, ringiovaniva. Colpa, forse, delle parole di Paolo. Quando afferma con soddisfazione: “ho terminato la corsa…ho conservato la fede”, io vedo una Fede ragazza, in tuta da ginnastica, abbronzata e con i muscoli scattanti. Una Fede che corre via leggera, sempre più irraggiungibile per il mio procedere appesantito dagli anni.
Speranza, invece, è persona paziente, si adatta al tuo passo, ti aspetta sempre.
Ma lo stesso Paolo ci insegna con sei soli termini del suo incipit, che queste nostre tardive chiacchierate sono, in fondo, solo giochi di parole e che le tre sorelle sono in realtà una sola cosa. La speranza si basa sulla fiducia, che è la faccia buona della fede, – altrimenti è pura illusione – e si realizza nell’amore: sperare in una salvezza individuale sarebbe davvero insensato.
Anche Pietro, per rispettare la par condicio fra le due anime non sempre coincidenti della nascente Chiesa del primo secolo, nella sua Lettera invita i cristiani a essere testimoni (rendere ragione) della speranza.
Con un salto di duemila anni e per un’altra strana coincidenza, ho letto proprio oggi, in un articolo che ricordava figura e pensiero di Zygmunt Bauman, che anche nella visione laica e lucida del grande sociologo polacco “non è possibile vivere senza speranza”. Senza speranza, vorrei aggiungere, è difficile non solo vivere, ma soprattutto invecchiare e morire. È molto più facile affrontare il proprio declino e il Salto nel buio che ci aspetta tutti, se si spera che dall’altra sponda ci sia una mano tesa che ci attende, una luce che ci accoglie, un abbraccio che ci aspetta.
Età anagrafica, aspetto fisico e particolarità caratteriali della Speranza e delle sue sorelle sono, in fondo, solo dettagli con cui giocare in queste fredde giornate d’inverno.
Rimane, però, la forza e la poesia delle immagini che ci regala il testo di Péguy. Anche per questo abbiamo un dovere di riconoscenza nei confronti dell’autore francese, dobbiamo essergli grati per aver scelto di fare fino in fondo quel suo “mestiere miserabile”. Perché “una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito”.
Charles Péguy aveva tasche vuote, non portava soprabiti e il peso specifico delle sue parole arriva tutto dallo sforzo di “strapparle” da quelle regioni scomode dell’anima in cui ci capita di rado di entrare.

Cervasca, gennaio 2017

Pubblicato sul Granello di senape del febbraio 2017