Statuti 1 Il piacere di tradurre

Abbiamo perso l’occitano, stiamo perdendo il piemontese, perderemo l’italiano.
Giornali e televisione hanno dato, nelle settimane scorse, ampio spazio alla lettera firmata da oltre 600 docenti universitari e da importanti intellettuali e indirizzata al Governo per lamentare le carenze linguistiche dei loro studenti e gli errori ricorrenti “appena tollerabili in terza elementare”. Il giudizio sui risultati concreti della scuola superiore era impietoso: “alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”.
In altre parole: un disastro. E non si tratta solo del facile scaricabarile tipico di ogni insegnante che cede alla tentazione di far ricadere le colpe dell’ignoranza dei propri allievi sui colleghi che l’hanno preceduto.
Il problema è che i 600 super-professori hanno ragione.
Se mai ci si potrebbe stupire di quanto tempo abbiano impiegato ad accorgersene e del fatto che non si siano mai troppo lamentati prima. Chiunque lavori da decenni nella scuola non può non aver notato il crollo verticale delle basilari capacità di espressione e comprensione degli allievi e i crescenti problemi nell’uso della lingua italiana. Ogni insegnante che abbia esperienza di correzione delle prove di maturità non può che concordare sul fatto che grammatica, sintassi, lessico e spesso anche senso logico siano ingredienti poco presenti negli elaborati dei ragazzi.
Come capita in questi casi, esperti veri o presunti si sono buttati a pesce sull’argomento per cercare cause, distribuire colpe e scovare colpevoli. Dopo oltre quarant’anni di insegnamento sarei tentato di lanciarmi anch’io in qualche analisi, ma preferisco rimandare e concentrarmi su altri aspetti della questione.
Perdere la propria lingua vuol dire perdere una parte di se stessi, della propria identità, delle proprie radici. Vuol dire perder la consapevolezza di ciò che ci distingue dagli altri e di ciò che ci accomuna. Vuol dire perdere la propria dignità di persona, di comunità, di gruppo, di regione, di nazione. È una triste omologazione, che riflette la globalizzazione del pensiero, dei valori, della cultura.
Come sosteneva don Milani, vuol dire perdere anche la capacità di conoscere e far valere i propri diritti ed essere costretti a delegare ad altri i propri compiti di cittadinanza, magari illudendosi che tutto si risolva con un clic e che ci salverà la “rete”. L’usura e il discredito delle istituzioni, la tentazione di affidarsi a leader autoritari (ma, in genere, tutt’altro che autorevoli) estranei al mondo della politica (speculatori finanziari con i capelli tinti, comici in disarmo, “nullafacenti” dichiarati, sedicenti “tecnici” esperti di economia) è anche l’effetto dell’aver smarrito la capacità di ragionare, argomentare, dialogare.
La perdita della lingua (grammatica, sintassi, ma soprattutto dizionario) deriva anche dalla tendenza alla semplificazione, a rendere tutto facile, indolore, poco faticoso.
Il “facilismo” è malattia contagiosa e droga che dà dipendenza e assuefazione.
La scuola deve essere accattivante, evitare ogni sforzo: un baby parking esteso fino alla maggiore età con lo scopo dichiarato di intrattenere il ragazzo e sollevare le famiglie. Questo non significa che una scuola buona debba per forza essere noiosa: al contrario, un insegnante valido è colui che sa trasmettere agli allievi il piacere di imparare e l’entusiasmo per ogni forma di conoscenza. Ma ogni cosa buona richiede sforzo e la soddisfazione è sempre proporzionale all’impegno e alla fatica. Non posso imparare a suonare il violino o il trombone se non mi esercito, non posso “possedere” una lingua senza spendere ore nello studio e nel tentativo di conoscenza.
In altre parole, poca fatica è uguale a molta noia e a scarsa soddisfazione, e il fatto che ci siano tanti allievi demotivati e tante classi “difficili” può dipendere anche dall’aver reso le cose troppo “facili”, abbassando il livello delle pretese fino ad annullare qualsiasi richiesta di impegno personale.
Senza contare che quello che in giovane età sembra noioso, superfluo e opprimente, può assumere nei decenni successivi un aspetto diverso e diventare perfino divertente. Anche le versioni dal latino o dal greco, incubo pomeridiano di ogni liceale, possono trasformarsi in età matura in giochi affascinanti.
Invecchiando ho scoperto il piacere di tradurre e sono andato a recuperare i polverosi dizionari degli anni del ginnasio. E ho capito, con mezzo secolo di ritardo, che uno straordinario mezzo per scoprire una lingua è conoscerla dal di dentro, attraverso la traduzione. Un amico scrittore mi diceva che aveva imparato il mestiere di mettere insieme frasi su carta proprio grazie allo sforzo di traduzione, l’unico mezzo che consente di capire il peso specifico di ogni singola parola usata per costruire l’edificio del racconto.
Tradurre è il modo migliore per avvicinarsi a una lingua (anzi, a due lingue contemporaneamente) e impararne i segreti: obbliga a leggere con estrema attenzione e rispetto, è un processo di digestione e lenta assimilazione. Si deve smontare il testo per poi ricostruirlo, ben consapevoli che le parole, cioè i singoli mattoni, hanno valenze e pesi specifici diversi nelle diverse culture. Non esistono termini perfettamente equivalenti in due lingue differenti e questo ci obbliga ad accettare un certo grado di approssimazione o a servirci di più parole o intere frasi per cercare di rendere l’idea. Senza andare troppo lontano e senza scomodare le lingue morte, basta pensare a quante espressioni piemontesi o occitane non trovano corrispondenza esatta nell’italiano. Ognuno può provare col dialetto parlato nel proprio paese e si accorgerà di come sia difficile tradurre parole e frasi e quanta ricchezza di sfumature sia contenuta anche nel più semplice dei nostri discorsi quotidiani.

Scritto nel marzo 017, pubblicato su La Guida del 23 marzo 017 col titolo “Dopo l’occitano e il piemontese perderemo anche l’italiano?”