Prima persona singolare

Cambiare è un verbo difficile, soprattutto se coniugato alla prima persona singolare (la seconda, come capita spesso, è molto meno problematica, la terza, tutto sommato, ci vede spettatori paganti, ma non attori).
E’ un verbo necessario, anzi, “ineludibile”, come titolava l’editoriale della scorsa settimana. Lo spiegava già nell’Ottocento Charles Darwin, anche se con termini diversi: chi non cambia resta spesso travolto dalla piena del cambiamento che lo circonda ed è destinato ad affogare. O a diventare patetico, come quelle vecchiette vestite da diciottenni o quei signori brizzolati con pancetta che imitano mode e atteggiamenti degli adolescenti. E’ anche uno degli imperativi evangelici: la parola che noi traduciamo con “conversione” vuol dire, nel testo greco, “cambiate mente” e tocca il significato profondo del verbo.
Questa dimensione interiore del cambiare sta alla base dei veri “cambiamenti”: le altre sono novità di facciata, una mano di vernice a coprire le crepe di un edificio pericolante, l’illusione del nuovo spacciata per nascondere la solita vecchia minestra riscaldata. E ci dice subito che i cambiamenti autentici non arrivano dall’alto, con l’improvvisa apparizione di uomini del destino vestiti da supereroi, ma dal basso, con l’impegno quotidiano di noi tutti. Eventuali profeti e innovatori “veri”, come papa Francesco, sono solo l’espressione di questi percorsi personali, spesso faticosi e la sommatoria di sforzi incompresi e a volte ostacolati di tanti piccoli protagonisti nascosti, autori dell’autentico cambiamento che poi prende la forma di una persona che appare all’improvviso, come per miracolo. Ma ogni miracolo, a leggere bene le Scritture, arriva anche dall’ostinazione o dalla fede dell’uomo.
“Cambiare”, come ogni parola importante, è però un verbo pericoloso e si presta a interpretazioni fuorvianti. In questo momento storico, in cui siamo tutti stanchi di uno stato burocratico e corrotto, dei tagli forsennati di servizi e diritti, del gioco a quiz delle nuove tasse, delle normative demenziali, di cene e mutande comprate con i nostri soldi e dei mille privilegi di una casta ramificata e onnipresente, è facile far cassa e audience promettendo illusori cambiamenti, magari al ritmo di “una riforma al mese”, come programmato da Renzi.
Chi come me è nella scuola da quarant’anni – senza contare il tempo in cui non giravo ancora le spalle alla lavagna – non può non essere allergico alla parola “riforma” che ci ha regalato continue novità accatastate alla rinfusa, senza un disegno e una linea precisa, come colpi di barra dati a casaccio da un timoniere schizofrenico: i quiz, i moduli, le unità didattiche, i test, le griglie, l’autonomia, i corsi di recupero, i debiti e crediti, gli accorpamenti e via riformando. Novità tutte o quasi nella direzione della complicazione burocratica e della minor efficienza, col bel risultato che – a forza di riforme – la scuola è diventata spesso una sorta di riformatorio. Parlo del settore che conosco, ma immagino che la stessa cosa si potrebbe dire della sanità, della giustizia, delle poste, delle ferrovie, della previdenza e via elencando. Ogni “riforma” ci ha tolto un pezzo di diritti, complicato un po’ di più l’esistenza, reso più difficile l’accesso ai servizi, aumentato stress e frustrazione. Basta pensare alla geniale riforma delle pensioni del governo scorso, un condensato di ingiustizia capace di rovinare la vita agli anziani e moltiplicare la disoccupazione giovanile.
Non è per fare del catastrofismo spicciolo e non è neppure tutta colpa del governo o “della politica”, ma spesso cambiare ha voluto dire cambiare in peggio. Il problema è che cambiare davvero è cosa difficile e che non è sufficiente introdurre a ritmo forsennato novità: nuovo non è sinonimo di bello e neppure di giusto o funzionale. Basta guardare i nuovi quartieri delle città e fare il confronto coi centri storici per averne una dimostrazione lampante di come la novità non sia sempre portatrice di bellezza e armonia.
E la fretta, come sempre, non aiuta. Cambiare è necessario, ed è anche urgente, ma urgenza e fretta non sempre vanno d’accordo. Quando si smarrisce il sentiero in montagna è meglio concedersi il tempo di riflettere bene sulla direzione da prendere, piuttosto che imboccare il primo bivio a casaccio, sperando che per magia ci riporti sulla buona strada.
Altro rischio dei cambiamenti affrettati è che nascondano, parafrasando il Gattopardo, l’intenzione di cambiare tutto per lasciare, in realtà tutto come prima. E questa impressione è rafforzata proprio dai primi provvedimenti del governo. Tutti di forte impatto mediatico e molto destabilizzanti, ma tutti orientati nella stessa direzione, quella della sostanziale continuità. Il nuovo premier ci ha, per ora fatto assaggiare, come antipasto, la cancellazione delle Province e il Jobs act, oltre al pasticcio penoso della norma antipedofilia.
Se il buon giorno si vede dal mattino non c’è da stare troppo tranquilli. Verrebbe quasi voglia di pensare: “tacuma bin!”: non ci siamo ancora riavuti dai danni provocati dal governo dei tecnici e ci tocca fare i conti con quello dei rottamatori.
L’abolizione delle province rientra in quel genere di provvedimenti di facciata che fruttano vantaggi molto incerti e provocano danni sicuri. Dà l’impressione che i guru ministeriali sparino cifre iperboliche sui futuri risparmi dimenticando completamente i costi reali della riorganizzazione e soprattutto trascurando quelli indotti, cioè quelli che devono pagare i cittadini per accedere a servizi sempre più lontani e irraggiungibili.
Il jobs act, (le solite parole inglesi, come se l’italiano mancasse di vocaboli o si volesse nascondere il significato vero dei provvedimenti) si potrebbe tradurre: precarietà a vita per tutti. Anche questo nel solco della perfetta continuità col credo neoliberista imperante, per cui il lavoro è solo un fattore di produzione con cui giocare per massimizzare profitti e ridurre i costi.
E pure la pagliacciata della norma antipedofilia, con relativa richiesta generalizzata di fedine penali rientra nel novero delle leggi assurde e inutili, che dietro il paravento di temi di enorme importanza e impatto nascondono solo la crescente spirale di una burocrazia onnipresente e onnivora. Anche qui, nulla di nuovo: tutti dicono di volerci semplificare la vita e poi, con le scuse più varie e nobili (la sicurezza, l’ambiente, la difesa dei minori) trovano il modo di complicarla e renderla difficile. Con l’aggravante, nel caso specifico, delle precisazioni e delle retromarce ex post, sull’onda delle proteste e del malcontento, tanto che viene spontaneo chiedersi se i nostri ben remunerati rappresentanti, prima di approvarne il testo, l’abbiano almeno letto.
Non tutti i provvedimenti sono così negativi come quelli appena descritti: al governo bisogna riconoscere il coraggio di aver aumentato le tasse sulle rendite finanziarie e di aver pure sfiorato le intoccabili banche. Forse la pressione dell’opinione pubblica lo spingerà anche a mettere un tetto agli stipendi di manager e alti funzionari e al buco nero delle consulenze.
Che ci piaccia o no viviamo tempi di mutazioni profonde e veloci, ma questo è avvenuto spesso nella storia e l’abbiamo sotto gli occhi nella natura, col vortice quotidiano di novità cromatiche, sonore e visive che ci regala questa bella primavera.
Mi piace sperare che anche la girandola frenetica di cambiamenti che spesso ci lasciano perplessi nasconda germogli di tempi davvero nuovi e porti un futuro di fiori e frutti. Forse dipende anche da noi e dallo sforzo di coniugare il verbo cambiare alla prima persona singolare.

Pubblicato su La Guida del 24 aprile 014