Lampouret

Lampouret (o meglio l’Ampouret) è un toponimo, anzi, per la precisione, è un “fitonimo”, cioè un nome di luogo che deriva da quello di una pianta. E’ il posto in cui crescono i lamponi, le “ampoule”. Capita spesso nelle nostre valli, dove ogni luogo, prato, campo, bosco, è stato battezzato col proprio nome, molto prima che arrivassero Catasti e mappe a trasformare tutto in aridi numeri.
Dare il nome a qualcosa va molto oltre la necessità di distinguere e catalogare: l’uomo in Genesi trova il suo posto nel mondo proprio con questo atto, delega del Creatore, di attribuire un nome a ciò che lo circonda. E’ un gesto di maternità o paternità, e insieme di rispetto e di consapevolezza, che stabilisce una relazione personale non solo con gli esseri viventi, ma anche con le cose.
Ora Lampouret se l’è mangiata il bosco, come sta succedendo a tante borgate delle medie e basse valli. Una triste “wilderness” che cancella il paesaggio agrario modellato da uomo e natura nel corso di secoli e che parla di incuria e abbandono, della morte di una civiltà millenaria e della lenta agonia dei suoi manufatti. Non è il trionfo o il ritorno della natura, come potrebbero pensare con superficialità ecologisti da salotto o burocrati cittadini, ma la vittoria del degrado e dello spreco generalizzato e istituzionalizzato.
D’estate Lampouret si vede appena, il grigio chiaro delle pietre e quello scuro delle lose che emerge a stento fra i mille verdi di una vegetazione invadente.
La borgata è piantata su un ripido costone di una valletta laterale vicino a Monterosso. E’ un posto selvaggio, in cui non va nessuno: fa parte di quella montagna nascosta che sfugge non solo al turismo dei vacanzieri, ma anche all’attenzione degli amanti delle passeggiate e della natura.
L’avevo fotografata diversi anni fa e, per caso, l’immagine era finita sulla Guida a fianco di un articolo sull’andar per borgate. Lo stesso giorno dell’uscita del giornale avevo ricevuto una telefonata da un’amica: il suo dirimpettaio, novantenne, aveva riconosciuto casa sua nella foto. La casa in pietra in cui era nato e vissuto, a cui era tornato con un viaggio infinito, fatto in parte a piedi, dal campo di concentramento, e da cui era dovuto scappare nel lontano 1963, vittima di quella “rivoluzione culturale” che ha svuotato le valli.
Qualche ora dopo ero seduto nella cucina di Antonio Isoardi, classe 1923, a sentire il suo racconto. Ero curioso di sapere come si facesse a vivere lassù, appesi su quel versante con pendenze da corde e piccozza, nove famiglie e trentasei persone a strappare il pane da quei pochi fazzoletti di campo e prato ricavati fra i castagni. Un racconto lungo una vita condensato in un pomeriggio e terminato con l’invito a tornare: ho ancora tante cose da dirti…
Antonio Isoardi è morto giovedì 17 aprile. L’ho saputo leggendo La Guida, che gli ha dedicato un articolo con fotografia. Ho riconosciuto il suo volto e il suo nome, come lui aveva riconosciuto la sua casa e la sua borgata, per tramite dello stesso giornale.
In queste righe voglio riportare qualcosa di quello che mi ha raccontato. Uso le sue parole: chi raccoglie testimonianze non è autore, ha il solo compito di dar voce con fedeltà, senza intromettersi. I verbi sono coniugati alla prima persona plurale, perché in montagna la sopravvivenza richiedeva sforzo e lavoro comunitario e anche nel racconto, parlando di vita quotidiana, il singolare era usato di rado.
“Avessi visto com’era quassù, c’erano già tante piante, tanti castagni, ma era tutto pulito, i prati li tenevamo puliti come questo pavimento. D’autunno raccoglievamo le foglie, per metterle a giàs, e di primavera passavamo ancora nei prati con una scopa di fascine.
Avevamo l’asino e due o tre mucche. Non potevamo metterle al pascolo, le tenevamo in stalla, tagliavamo l’erba col masuirot e la portavamo alla greppia. Eravamo obbligati a fare così, perché “avien nen tanta grandura” (non avevamo un’azienda grande) e “coudien tout” (dovevamo tenere da conto tutto). Nonostante questo lavoro, erba e fieno non bastavano, una buona parte del foraggio la prendevamo dagli alberi. A primavera tagliavamo le versele tendre dei frassini e dei faggi. In autunno si facevano seccare le fascine con le foglie per darle d’inverno a pecore e capre. Ogni famiglia aveva una pecora per la lana e una capra o due per il latte.”
Antonio ricordava che la carenza di terra era tale che li costringeva a procurarsi il foraggio con la continua ginnastica del salire sugli alberi a tagliar rami e che questo aveva provocato grandi problemi durante gli anni di guerra, quando nella borgata erano rimasti soltanto più i vecchi, incapaci ormai di quell’esercizio di acrobazia. Dopo la tremenda esperienza del campo di concentramento e l’eterno viaggio di ritorno fatto in buona parte a piedi era arrivato stremato a Lampouret. Suo padre, dopo averlo abbracciato e ristorato gli aveva subito chiesto di salire sulle piante a tagliar rami.
Vicino alla borgata non c’erano campi, la segale e le patate si dovevano mettere nei terreni in alto, verso levante, oltre la cresta della montagna. In compenso attorno a casa non mancavano le pietre da spacco, adatte per far muri e anche per le lose dei tetti. C’era anche argilla per chiudere le fessure. La sabbia, invece, bisognava andarsela a prendere a valle, al rio. Si puliva un pezzo del corso d’acqua e si aspettava che si depositasse. Poi si faceva asciugare e si portava a casa con la sabaca (gerla). Una a spalle e due sull’asino, poca per volta vista l’estrema pendenza della mulattiera. Sabbia e calce erano un lusso riservato ai voultìn sopra le porte e le finestre, per muri e volte doveva bastare la terra.
La loro famiglia, “chi ’d Touniet” dal soprannome di un omonimo antenato (lo stranòm era d’obbligo in una borgata in cui 8 famiglie su 9 si chiamavano Isoardi) aveva costruito la stalla nuova nel 1951, appena passata la bufera della guerra. Due muratori di Graìn di Rittana erano venuti a stare da loro per tutta la durata dei lavori. Il colmo era un castagno cresciuto poco lontano, un “servaioùn” enorme e bello dritto: lo avevano trasportato e messo su diciotto uomini, tutti della borgata. Era il lavoro della domenica pomeriggio, pagato a pane e salame e qualche bicchiere di vino. Per le fondamenta della stalla erano bastate cinque enormi pietre a coprire tutta la lunghezza del muro portante, appoggiate direttamente sulla roccia madre sottostante. Una costruzione fatta per durare secoli, frutto di fatica e sapienza piuttosto che di calcoli strutturali e normative antisismiche.
Il pomeriggio era volato, Antonio aveva voglia di raccontare, io avevo voglia di sentire e di capire. Vieni di nuovo, ho ancora tante cose da dirti, mi aveva detto salutandomi sulla porta.
La vita quotidiana e l’eterna fregatura delle mille cose da fare mi ha fatto dimenticare l’impegno di tornare, sempre rimandato, fino a quando è stato troppi tardi. Muoiono le persone e con loro muoiono le conoscenze, i nomi, le tecnologie, la cultura.
Restano le storie, resta il racconto, resta il ricordo riconoscente, unica forma di sopravvivenza affidata alla cura e alla memoria di tutti noi.