In viaggio per archivi 4,5,6

Attraverso i resoconti annuali della settecentesca tassa sul sale possiamo vedere, sullo sfondo, una società sempre più povera e affamata e uno stato, quello dei Savoia, che dalla lontana Torino attua una politica di rigore e di crescente controllo burocratico, contribuendo all’aggravarsi della crisi.
Se non facciamo caso alle date e operiamo le opportune traduzioni relative al contesto, ci possiamo rendere conto che si tratta di storie vecchie, ma sempre attuali. Cambiano modalità, strumenti, metodi, ma la sostanza rimane: uno stato che nei momenti difficili, invece di seguire la logica e rilanciare l’economia abbassando le tasse, si accanisce a spremere i cittadini facendo incancrenire la crisi, con risultati suicidi, oltre che dolorosi.
La civiltà alpina del passato, soprattutto nel modello  chiamato latino, era caratterizzata da una straordinaria capacità di autosufficienza. Tutte le risorse dell’ambiente erano sapientemente utilizzate e la perfetta integrazione di agricoltura e allevamento consentiva di produrre in loco quasi tutto ciò che serviva per vivere. La gente di montagna aveva sviluppato nel corso di secoli un eccezionale adattamento alle difficili condizioni ambientali e riusciva a ricavare dal proprio impervio territorio non solo il cibo, ma anche il vestiario e i materiali da costruzione per fabbricare gli edifici.
Unica eccezione a questa quasi completa autosufficienza era il sale. Oggi fatichiamo a capire l’importanza di questo semplice alimento e ci pare inverosimile che fosse un genere di monopolio strettamente controllato. In tempi di frigoriferi, surgelatori, alimenti sterilizzati e liofilizzati, di ipertensione generalizzata e diete iposodiche non ci rendiamo più conto del fatto che senza sale non si potevano conservare i prodotti caseari e diventava problematico anche il già precario equilibrio alimentare di uomini e animali.
La rapacità del fisco si concentra in ogni epoca su ciò che è indispensabile e non stupisce che allora si accanisse sul cloruro di sodio e qualche decennio dopo sugli animali, esattamente come fa adesso con carburanti, automezzi, case. A vantaggio dei tempi passati, la maggior semplicità burocratica, la sostanziale stabilità delle tasse (uguali per decenni, a differenza dell’attuale girandola di norme e di nomi) e anche un tentativo, operato dai comuni, di contrapporsi alla rigidità impositiva statale introducendo esenzioni e differenziando i gradi di povertà dei contribuenti.
Queste forme di opposizione da parte dei comuni alle pressioni e agli obblighi di natura fiscale imposti dalle autorità centrali sono molto interessanti e potrebbero costituire un buon argomento di riflessione per le nostre attuali amministrazioni.
Faccio un salto temporale di oltre un secolo, rimanendo sempre nell’Archivio di Castelmagno. A inizio novecento la gamma delle imposte era molto cresciuta e la principale fonte di entrate per il comune (e di uscite per i cittadini) era la tassa sul bestiame. Come capita adesso per Ici, Imu e altro, lo stato stabiliva un minimo e un massimo a cui attenersi e ogni comune doveva decidere cifre comprese fra i due estremi. In data 24 aprile 1921 si riunisce il consiglio di Castelmagno e fissa delle tariffe molto inferiori al minimo di legge. Naturalmente il Prefetto non le approva e obbliga il comune a ripetere la seduta per decidere aliquote adeguate alla norma. In effetti, il Consiglio si riunisce e il Presidente cerca di far capire la “necessità di fissare almeno il minimo della tassa stabilita dalla Giunta Provinciale” ricordando i guai in cui potranno incorrere eletti e cittadini in caso contrario.
La discussione è accesa, ma la decisione è unanime: “tutto il consiglio dice di non poter approvare il minimo della tassa… Quindi approva la tariffa qui sotto scritta, in alcuni casi inferiore alla minima imposta…”.
Il documento si dilunga sui motivi di questa inaudita disobbedienza civile, spiegando alle lontane autorità centrali che gli animali in montagna non danno “reddito tale da sopportare quella tassa”, che “colpisce fin troppo duramente questa popolazione che da essi trae tutto il suo sostentamento”. Il testo prosegue sostenendo che tariffe “giuste ed eque per i paesi di pianura” diventano intollerabilmente gravose e ingiuste in alta montagna “ove la raccolta del foraggio costa fatiche inaudite e tempo dieci volte maggiore”.
Il verbale integrale della seduta, scritto dal segretario comunale con qualche incertezza sintattica ma con una foga e una partecipazione che ci permette quasi di “assistere” alla vivace riunione, è un esempio di dignità e di chiarezza.
Nei tempi attuali, in cui alla faccia della sbandierata autonomia e dei vari localismi sovente isterici e grossolani, il Governo centrale usa i Comuni come esattori alle sue dipendenze e non si preoccupa di svuotarne continuamente le casse e di limitarne ogni reale indipendenza, sarebbe bello vedere qualche amministrazione imitare i coraggiosi Consiglieri di Castelmagno dei lontani anni venti.

In viaggio per archivi 5
Stiamo perdendo la memoria. Ho usato il verbo al plurale non solo per consolarmi del mio personale collasso neuronale coinvolgendo nel declino l’intera collettività, ma perchè si tratta, purtroppo, di un fenomeno che riguarda tutti e che ci interessa non solamente come singole persone, ma come comunità e addirittura come epoca storica. Non mi riferisco solo alla capacità di ricordare, compromessa dall’eccesso di informazioni, dal continuo rumore di sottofondo, dal calo dell’attenzione dovuto al fare molte cose insieme (multitasking), dall’uso di supporti tecnologici che sostituiscono la necessità di memorizzare. Rubriche digitali, calcolatrici, computer, internet rendono apparentemente inutile questa facoltà e ne minimizzano la necessaria ginnastica quotidiana, atrofizzando la capacità di immagazzinare e ordinare nozioni. Nessuno studia più poesie a mente, le tabelline sono obsolete, i numeri di telefono degli amici sono a portata di tasto, qualsiasi informazione ci arriva facilmente per via telematica. Perfino le carte geografiche non servono più, una vocina ti suggerisce se girare a destra o a sinistra ad ogni incrocio e ti dice di fermarti quando sei arrivato.
La perdita non è solo relativa alla memoria individuale (cosa già grave), ma ci coinvolge collettivamente come gruppi, come regioni, come nazioni. Siamo individui smemorati in un’epoca smemorata. Stiamo perdendo i riferimenti di ricordi e nozioni comuni che uniscono, come un collante, ogni insieme di persone facendo di una massa di individui una società.
Non è corretto parlare di memoria “condivisa”, termine alla moda ma poco preciso. Si può invece parlare di memoria collettiva, facendo riferimento a quel bagaglio di ricordi, valori ed esperienze comuni che ci identificano e sono alla base della nostra “appartenenza” a gruppi in cui ci riconosciamo. L’indebolimento di questo tipo di memoria ci rende insicuri, vulnerabili e soli e spiega molte reazioni difensive, come la paura del diverso e dello straniero. La perdita di un’identità forte porta spesso a costruire barriere e recinti e all’esasperata difesa di un qualcosa che sentiamo scapparci di mano.
Sono discorsi che credo molto attuali e importanti, ma ci porterebbero troppo lontano dal nostro viaggio: anche al piacere di divagare deve esserci un limite. Ho fatto questa lunga premessa solo per spendere ancora una parola sull’importanza degli archivi comunali e parrocchiali. La nostra epoca frettolosa e tecnologica affida la sua memoria a supporti informatici, efficaci, capienti, ma fragili. Scomponiamo i ricordi in codici binari e sequele di bit e li affidiamo a schede magnetiche e sistemi operativi che devono ritradurceli in linguaggio corrente.
Oggi ho passato qualche ora piacevole nella lettura di una Capitolazione del Comune di Demonte relativa all’affitto delle montagne per “il corrente anno 1667”. La grafia era comprensibile, l’inchiostro ancora ben visibile, la carta in buono stato. Dubito molto che fra 346 anni queste righe che sto digitando sul mio computer saranno ancora leggibili. In un’epoca di obsolescenza programmata sistemi operativi e strumenti hanno durata effimera.
In tempi di scarsa memoria individuale e collettiva la carta degli Archivi è una specie di arca di Noè che salva il nostro passato, ci restituisce la consapevolezza delle nostre radici e può aiutarci a dare un senso e una direzione anche al nostro presente.

In viaggio per archivi 6
Come capita sovente con le cose che fatichiamo a capire, da ragazzo amavo poco la matematica. Invecchiando, continuo a considerarla un continente sconosciuto e ostile, ma mi sono riconciliato coi numeri. Non è una cosa tanto strana: si può apprezzare la bellezza di una pietra da costruzione senza arrivare a cogliere la complessa architettura dell’edificio in cui è inserita, amare la musicalità di un verso senza capirne il senso, commuoversi per una melodia senza saperla solfeggiare in chiave di violino.
Gli Archivi sono grandi contenitori di numeri. La macchina burocratica dei Comuni ha sempre macinato cifre, oltre che parole. Tabelle, statistiche, resoconti, bilanci, ruoli di tassazione, censimenti. Migliaia di numeri che riempiono pagine e pagine di documenti e spesso non sono letti da nessuno. Chi mette il naso nella polvere degli Archivi sovente ha formazione e interessi umanistici, storici, antropologici e va piuttosto alla caccia di parole e di avvenimenti, riservando alle cifre un’attenzione distratta o scartandole del tutto dal suo campo di ricerca.
I numeri sono davvero i parenti poveri delle parole, quelli che nessuno va mai a trovare e che restano esclusi da inviti o riunioni famigliari. E’ vero che sono gente poco adatta alla conversazione, incapace di regalare emozioni, per niente accomodante e poco malleabile. E, vero anche che sono tipi un po’ noiosi e ripetitivi, molto ordinati, estranei a fantasie e scarsamente capaci di entusiasmare.  Ma hanno anche un sacco di solide virtù. Sono onesti, non ingannano, non conoscono sfumature e doppiezze.
Soprattutto sono indispensabili per capire. Senza le cifre non ci si rende conto dei fenomeni e degli avvenimenti, si resta nel vago, nella terra di nessuno delle opinioni.
A fine ottocento molte statistiche erano richieste dalle autorità militari o da quello che allora si chiamava, alla faccia del pacifismo, Ministero della Guerra. Anche in tempi di non belligeranza le autorità centrali si preoccupavano di conoscere le risorse disponibili per un eventuale conflitto e richiedevano dai comuni relazioni dettagliate su abitanti, case, muli, asini, basti, carri, produzioni agricole, foraggi, mulini, forni e sulla disponibilità di artigiani nei vari settori. Queste lunghe tabelle sono adesso preziose per capire la vita e la società di allora.
Nell’Archivio di Demonte è conservato un foglio intitolato “Specchio delle risorse esistenti nel Comune anno 1883” da cui sappiamo che allora gli abitanti erano quasi ottomila. Festiona superava i mille abitanti da sola, le frazioni del vallone dell’Arma arrivavano insieme a quasi a duemila residenti.
Un analogo documento del 1894 ci informa che il numero degli animali allevati eguagliava quello degli umani: 2375 vacche, quasi quattromila fra ovini e caprini, oltre 500 equini (muli, asini e pochi cavali, tutti nel concentrico), oltre 300 suini. Solo nel vallone dell’Arma c’erano ben 127 asini. Nel comune funzionavano 22 mulini e 67 forni da pane, 3 segherie e altrettante fucine.
Le produzioni di cereali, patate, castagne e foraggi erano molto rilevanti, mentre diminuiva drasticamente la coltivazione di canapa (nel 1892 ne rimanevano comunque otto ettari), ormai poco redditizia: “di difficile smercio e di scarsissimo prezzo”. La superficie a vite in quell’anno era anch’essa di otto ettari, con una produzione di 270 quintali di uva, destinati a diventare un vino di certo non paragonabile ai DOC langaroli, nonostante il documento affermi che la qualità dell’annata fosse “buonissima” a causa dell’estate calda e secca.
In ogni caso, il vino era un prodotto destinato ai pochi che se lo potevano permettere. Il testo prosegue dicendo che “i nostri agricoltori rade volte bevono vino o lo bevono intemperanti e rarissime o mai mangiano carne”.
Le pur rilevanti produzioni di cereali e latticini non erano sufficienti a nutrire una popolazione così numerosa e la tassazione, allora come oggi, non aiutava certo la povera gente. Unica alternativa rimaneva l’emigrazione: “Nel nostro mandamento le classi agricole benché laboriose e sparagne pure non bastano a provvedere ai mezzi di sussistenza ed ai pubblici pesi coi prodotti delle loro terre, insufficienti per estensione e in massima parte anche per poca fertilità. Esse sono costrette ad attingere all’estero, con rudi lavori e grandi sacrifici… quel di più che è loro necessario e che pure in parte manca.”