In viaggio per archivi 1,2,3

Dopo l’invito ad allacciarsi gli scarponi e ad andare per borgate, vorrei proporre adesso un’altra breve serie di passeggiate, più adatte al rigore dei mesi invernali e fattibili anche in caso di condizioni meteorologiche avverse.
Un viaggio di carta, fatto di volumi rilegati e di fogli sparsi, spesso lacerati dal tempo e consunti dall’uso. Una passeggiata che, come ogni viaggio, richiede fantasia e pazienza, ma che non si basa su storie fantastiche o inventate, bensì su documenti molto concreti e pratici, spesso anche un po’ noiosi, al confine fra la burocrazia e la storia, tra l’ordinaria amministrazione e gli eventi spesso tragici o drammatici che hanno sempre fatto da contorno alle nostre esistenze.
La carta, come ben sanno i lettori incalliti, è di gran lunga il miglior mezzo di trasporto, economico, ecologico, perfino comodo. Adatto sia all’esuberanza dei giovani che alla obbligata tranquillità dei vecchi, è particolarmente indicato in caso di maltempo e di minacciose configurazioni cicloniche, nebbie prolungate e acciacchi incipienti.
La carta che ci accompagnerà in questo viaggio non è quella patinata delle riviste o quella rilegata dei libri, e neppure quella ormai virtuale e immateriale degli ebook. E’ carta ingiallita dal tempo, prigioniera di faldoni impolverati, abituata agli ambienti chiusi di magazzini e scantinati.
Insomma, è carta d’archivio. Ma non è affatto carta morta, anche se spesso stracciata, sfibrata, macchiata, mangiata dai topi e corrosa dall’umidità.
Negli archivi c’è la vita e c’è la storia. Come le pietre delle borgate, anche i faldoni degli archivi hanno voglia di raccontare e aspettano solo che qualcuno li accosti con pazienza, rispetto e fantasia per trasformarsi da muti e polverosi reperti burocratici in vivaci narratori, ansiosi di condividere notizie e commenti.
Sono spiccioli di storia, che ci restituiscono aspetti di vita quotidiana che non riusciamo a trovare nei manuali e sfuggono all’attenzione degli accademici. Ci fanno vedere gli avvenimenti da un altro punto di vista, che è quello dell’attualità di chi scrive, annota, riporta dati nel momento in cui accadono e senza alcuna intenzione commemorativa.
Una prospettiva di perenne presente, capace di riportarci davvero indietro nel tempo, mentre i testi di storia spesso si limitano a un riassunto a posteriori di fatti passati e sono condizionati dal punto di vista di chi li scrive e appesantiti da giudizi anche inconsci o inespressi. Pur restituendoci la memoria di uomini, donne, animali, fabbricati, gli archivi sono importanti, infatti, proprio perche non si basano sulla memoria, che è facoltà fallace, ma su annotazioni fatte al momento, coi verbi al presente o al massimo al passato prossimo: ogni pagina ha la freschezza del fatto appena avvenuto, non ancora passato attraverso il filtro deformante del ricordo. Al contrario delle testimonianze orali, non temono la fisiologica perdita di neuroni degli informatori e neppure i meccanismi psicologici di rimozione e di alterazione del vissuto.
Vorrei condividere con voi alcuni di questi viaggi attraverso gli archivi dei comuni della valle Stura e Grana. Senza pretesa di ricostruire quadri completi e senza sconfinare nella ricerca storica, di cui non ho competenza: si tratta solo di pennellate sparse o di tentativi di ridare aria alla carta. Ed è anche un po’ il piacere di trasformare il resoconto in racconto, di dare anima alle cifre e vita agli elenchi.
Perchè la storia, anche quella con la S maiuscola, è fatta di storie, deve tenere insieme i grandi avvenimenti e le piccole cose della vita quotidiana. E negli archivi ci sono appunto le minuzie, i dettagli di entrate e uscite, le liti, i ruoli delle imposte, l’elenco di muli e asini con relativa tassazione. E, mescolate a queste tracce di vita ordinaria in un impasto inscindibile, possiamo vedere i riflessi locali dei grandi avvenimenti, la follia delle guerre, i vari regimi autoritari, i morti, i dispersi, le catastrofi climatiche, le carestie, le epidemie, l’emigrazione.
L’archivio consente di cogliere il grande avvenimento attraverso la prospettiva dei suoi riflessi nel piccolo comune, di apprezzarne la dimensione reale, l’effetto sulla popolazione.
In questi mesi in cui sono stato spesso in archivi, mi è capitato sovente di pensare alla storia come a un grande frullatore, o meglio, una “bitumeuse”, l’impastatrice per fare la malta che gira lentamente mescolando sabbia, inerti e calce. Una betoniera che inghiotte le esistenze di grandi e piccoli personaggi, di gente ordinaria e figure “importanti” e le lega col cemento dell’oblio sfornando un materiale uniforme, in cui è difficile scorgere i singoli componenti. Gli archivi, però, ci possono restituire nomi, cognomi, numeri, individualità: in altre parole, vita reale e soprattutto “persone” che hanno lavorato, sofferto, gioito, sperato, cercato un’esistenza migliore.
Se leggo un Ordinato del 1732 di Castelmagno in cui un consigliere chiede il rimborso per i sei giorni che  ha dovuto trascorrere nei “boschi communi” per sventare furti da parte dei “particolari forestieri di Pradleves” a cui si aggiungono “soldi cinque datti a un pedone mandato dal medesimo a chiamare il messo per arrestare una bestia asinina carica di bosco” non ho difficoltà a immaginarmi la scena della guardia che “arresta” il povero animale.
E posso anche capire l’importanza attribuita in quei tempi al legname, allora molto scarso, tanto da giustificare, negli anni seguenti, la decisione del comune di stipendiare con ottanta lire annue un “custode de’ boschi”. L’allusione ai “forestieri” di Pradleves può farmi sorridere, pensando che ogni epoca ha i suoi stranieri, si crea i suoi “extracomunitari” (termine fra l’altro corretto, visto che allora i paesi si chiamavano “Communità”).
L’esempio ha come unico scopo quello di far capire che due righe lette in un documento di archivio possono darmi un’immagine molto più viva della vita di allora che un intero capitolo di un testo di storia.
Se non fosse un’espressione abusata, orribile e priva di senso, verrebbe da dire che attraverso gli archivi viviamo la storia in tempo reale.
Diciamo piuttosto che possiamo vedere il passato da una prospettiva “presente”.

In viaggio per archivi 2
Ho chiamato questa chiacchierata “In viaggio per archivi”, ma devo precisare che si tratta forse di un titolo un po’ troppo pretenzioso. Il mio “viaggio” si limita al territorio di due valli contigue, a cui sono legato per motivi di lavoro e di residenza passata e presente. E la prospettiva dell’indagine è quella dell’agricoltura e questioni relative. Nessuna pretesa, quindi, di improvvisarmi storico, sociologo o antropologo.
Fatta questa doverosa premessa, devo subito però spiegare qual è la mia idea di viaggio, valida sia per il significato reale che metaforico del termine.
Un viaggio non ha parentele con la definizione geometrica di linea retta (il percorso più breve per unire due punti), ma è un insieme di divagazioni vagamente comprese fra la partenza e una (eventuale) meta. La quale non è un punto di arrivo, ma serve piuttosto a dare senso e direzione prevalente agli sforzi di movimento.  La parola “viaggio” contiene in sé il concetto di sconfinamento, visto che viaggiando si superano frontiere di vario tipo, e quello di esplorazione di cose sconosciute. Il motore del viaggio non sfrutta idrocarburi, ma è alimentato dalla curiosità e dal piacere di conoscere.
Questo primo assaggio di divagazione ha lo scopo di precisare che nel mio girovagare per archivi, pur interessandomi di agricoltura, non mi farò alcun problema a “sconfinare” in altri settori. E questo per due motivi, uno di ordine pratico, l’altro più “filosofico”.
In passato praticamente tutti i residenti in montagna facevano di mestiere i contadini. Agricoltura e allevamento, col piccolo commercio e le attività artigianali connesse, erano l’unico motore di un’economia volta all’autoconsumo e alla sussistenza e l’occupazione di tutti gli abitanti. Secondo i precisi dati del Censimento del 1848, Castelmagno contava  1291 abitanti: fra loro c’erano due preti con relative perpetue (chiamate “sirvente”) e un gabelliere-impiegato. Gli altri, a parte qualche giovane temporaneamente precettato come soldato, risultavano tutti contadini, in una proporzione che supera abbondantemente il 99 per cento.
Parlare di agricoltura significa parlare quindi dell’intera vita, del lavoro, del punto centrale di ogni esistenza. L’architettura, la viabilità, i commerci, l’artigianato, perfino le storie raccontate nelle veglie serali: tutto ruotava intorno a campi, prati, animali, tutto era in funzione di questa attività dominante.
Se ci dimentichiamo di questo punto di partenza, rischiamo di non capire nulla della montagna di allora e di fare della retorica, della poesia, del passatismo a buon mercato, della cattiva storiografia.
Ma c’è un altro motivo meno spicciolo per cui credo sia doveroso “sconfinare” per chiunque si occupi di qualunque tipo di studio o di ricerca.
Potrei dire, semplicemente, che i confini sono da sempre i luoghi più fertili, quelli in cui avviene lo scambio, la relazione, il miglioramento, l’innovazione. Il confine è il luogo che ti fa mettere in dubbio le presunte certezze e ti dà l’occasione per guardare le cose che credi di conoscere da un punto di vista diverso e imprevisto. Ma vorrei aggiungere che in questa nostra epoca di iperspecializzazione, in cui ogni studioso approfondisce sempre di più dettagli e particolari di settori sempre più circoscritti del sapere, si corre il rischio di perdere la necessaria visione d’insieme.
E allora ben vengano gli sconfinamenti, che ci consentono di ritrovare le altre tessere di quel mosaico complesso che è sempre la realtà.
Contrapporre poi saperi scientifici, tecnici e umanistici è male tipicamente italiano, residuo ancora dell’impostazione gentiliana dell’insegnamento e fonte di molti guai.
La conoscenza, come la vita è qualcosa di unitario e nello stesso tempo di multiforme, in cui la varietà e la ricchezza di sfumature convivono con un nucleo centrale unico e fondante.

In viaggio per archivi 3
La Reale Casa dei Savoia aveva molta meno fantasia nel 1700 rispetto ai nostri attuali governanti. Niente Tares, Tarip, Tia, Ici, Imu, imposte dai nomi cangianti a ogni soffio di vento autunnale, nascoste in “patti di stabilità” e finalizzate alla “crescita” (ma l’unica cosa che cresce davvero è la pressione e l’oppressione fiscale e di stabile in Italia sembrano esserci solo le fregature per i contribuenti onesti e una tendenza sempre maggiore alla complicazione).
La tassa principale, allora, era quella sul sale e gli adempimenti burocratici e relativi conteggi erano davvero semplici, se paragonati a quelli odierni. Anche la “pressione fiscale” era ridicola rispetto ai giorni nostri. Ma i numeri non devono trarci in inganno. In realtà, la pur minima tassazione di allora doveva essere ancora più “dolorosa” rispetto al cumulo di tasse, imposte, balzelli e tributi che ci rovinano oggi l’esistenza. In un’economia a scarsissima circolazione monetaria e tutta volta alla sussistenza era molto difficile trovare i soldi per pagare quello che allora si chiamava “cotizzo personale”.
Proprio la crescente pressione fiscale attuata dai Savoia a partire da metà settecento è una delle ragioni della grave crisi economica degli anni di fine secolo. La lettura paziente degli Ordinati di quel periodo ci consente di renderci conto dell’avanzare di questa crisi e delle difficoltà sempre maggiori per gli abitanti delle nostre montagne.
A Castelmagno il sale arrivava dal Banco di Borgo San Dalmazzo, trasportato a dorso di mulo e depositato nella camera consigliare di Campomolino in attesa della distribuzione e della riscossione della tassa.
La consegna avveniva in proporzione al numero di “bocche umane e bovine” ed il Sindaco stesso si recava a piedi a Borgo a consegnare i registri relativi alla riscossione. Nell’Ordinato del 1733 si annota il rimborso per la missione “Il Sindico ha da ricevere la vacatione di giorni tre (per) la consegna delle Bocche umane e Bestiami d’effetto di formare il quinternetto del salle”.
In quegli anni il criterio di tassazione era basato su un calcolo molto semplice: una lira a persona (lire una caduna testa). Nel documento vi è l’elenco dei capifamiglia divisi per borgata col numero dei componenti famigliari e relativo importo. Si parte da “Chiappo Ruatta”, Chiotto, Molino, Colletto, Cauri, Fey, Valiera, Narbona. E’ interessante notare la differenza dei nomi rispetto a quelli usati in seguito: Chiappo e Chiotto con la “o” finale, Molino al posto di Campomolino e Fey al posto di Campofei. L’incasso totale è 424 lire, pari al numero dei contribuenti.
Il documento è firmato da un notaio dal cognome locale, Donadio, che attesta che il bando è stato annunciato dal messo giurato “uscente il popolo dall’udire la santa messa cantatta precedente il suono del tamburo altamente e distintamente di parcella in parcella” e pubblicato ad esclusione di ignoranza “me sottoscritto segretario dettante per tre giorni continui festivi”.
Nel 1755 la situazione economica si fa peggiore e il Comune decide di ridurre la tassazione alle fasce più deboli della popolazione. Per questo il sindaco Pessione (altro cognome ancora attuale in zona) propone di dividere il paese in tre categorie: quella di “coloro che non sono poveri” tassati  “a lire una caduna testa maggiore d’anni sette” quella dei poveri, tassati  “a soldi dieci”  e quella dei mendicanti, del tutto esenti. Le entrate diminuiscono quindi rispetto a quelle degli anni precedenti. La crisi economica spinge anche il Consiglio a deliberare il pagamento di lire undici per “rubbi quattro libre otto sale di maggior smaltimento pubblica elemosina distribuito ai poveri in ambe le parrocchiali”.
Verso la fine del secolo la situazione si fa ancora peggiore e i contribuenti sono divisi addirittura in sette categorie, con tutti i possibili gradi di povertà.
Gli anni di fine settecento devono essere stati molto duri, sulle nostre montagne. Dopo le gravi pestilenze del 1600, il diciottesimo secolo portò guerre, scorrerie, invasioni di truppe franco-spagnole, gli echi della Rivoluzione Francese e il rafforzarsi del dominio dei Savoia, con relativa pesante “normalizzazione”. La valle Stura, col suo valico internazionale fu molto più colpita rispetto alla valle Grana e pagò un alto tributo di arruolamenti forzati, di morti e di feriti.
Guerre e invasioni portarono carestie e pestilenze e fecero impazzire i prezzi dei generi alimentari: i cereali erano venduti a oltre venti lire per emina (18 chili) quando lo stipendio annuo di un impiegato comunale era di 80 lire.
Don Piola di Valloriate registra in quegli anni i nomi dei molti suoi parrocchiani morti di fame.

Articoli pubblicati su La Guida del 13, 20 e 27 dicembre con titoli diversi