Torcicolli d’autunno

Invecchiando, ci può capitare di essere colpiti da una strana forma di artrosi che tende a farci girare la testa indietro. Visto che le nostre personali previsioni atmosferiche a breve termine annunciano nebbie in aumento e perturbazioni minacciose, e il futuro più lontano si intravede ricco di preoccupazioni e acciacchi e povero di speranze, possiamo essere tentati di trovar rifugio nel passato.
La patologia, oltre a colpire le vertebre cervicali, ha strani effetti anche sulla vista, provocando una forma anomala di daltonismo che altera i colori facendoci vedere rosa il passato, grigio il presente e nero il futuro.
La malattia porta anche a una forma di regressione psicologica che ci spinge fare spesso il giochino dell’allora e dell’adesso, proponendo improbabili confronti fra situazioni storiche e personali lontane nel tempo. Confronti che, manco a dirlo, tendono tutti a evidenziare il disastroso peggioramento collettivo dell’umanità intera (dietro il quale spesso cerchiamo di mascherare la nostra personalissima decadenza) e ad annunciare la catastrofe prossima ventura.
Mi è venuto spontaneo parlare di questa strana sindrome perché, forse a causa di un novembre umido e uggioso, sento anch’io qualche sintomo di questo particolare torcicollo.
D’altra parte, l’autunno, sia quello meteorologico che quello esistenziale, è stagione ambivalente, tempo insieme di raccolta e decadenza, e di bilanci a consuntivo che spesso sono lontani dai preventivi fatti a inizio d’anno.
L’autunno è stagione di frutti, porta a compimento le speranze della primavera e le promesse dell’estate, ma è anche il momento in cui si accumulano le fatiche della bella stagione senza ancora il regalo della pace e del riposo offerto dall’inverno.
Può essere occasione di gioia, ma anche di stanchezza o di delusione. Di certo, è tempo di preparazione. In campagna è il momento dedicato a fare le ultime scorte, a disporre tutto in ordine in attesa della pausa invernale.
Per questo è tempo prezioso, con giornate più corte che dettano ritmi diversi da quelli estivi. Ore più brevi, nello spazio calante stretto fra albe e tramonti che si rincorrono, da vivere con un’intensità diversa rispetto alle lunghe giornate estive, in cui la luce sembra non finire mai. Un’intensità che non ha nulla della fretta, anzi, ne è l’esatto contrario: è la lentezza che consente di assaporare meglio e di distillare fino in fondo il momento restante concesso.
Imparare a vivere, capire, accettare, amare il proprio autunno non è cosa facile, soprattutto se quello personale ci pare accompagnato dall’autunno della storia, e ci sembra di vivere tempi di decadenza e chiusura. Per noi che giriamo intorno ai sessant’anni e abbiamo quindi superato la linea equinoziale, noi che abbiamo radici negli anni sobri e consolanti del dopoguerra e una giovinezza sbocciata coi fiori del sessantotto, pare triste invecchiare prigionieri di un mondo invecchiato. Ci sembra di vivere la preoccupante coincidenza del nostro decadimento insieme al crollo dell’universo che avevamo sperato e immaginato.
Di certo, nei nostri sogni non c’era un mondo di capannoni e donne velate, di fondamentalismi e guerre di religione, di tecnocrazia e schiavitù, di violenza pubblica e privata e ci angustia constatare che lasciamo in eredità ai figli nuove prigioni e orizzonti sempre più limitati. Ci addolora vedere attorno a noi una gioventù smarrita, che ha perso la speranza prima ancora di vederla nascere e che potrà accusarci di egoismo e indifferenza.
Ma se non si sono realizzati i nostri sogni giovanili, forse è il caso, invece che volgere indietro lo sguardo e ammalarci di recriminazione, di ritrovare la capacità di sognare: se quelli vecchi non hanno funzionato possiamo provare a socchiudere gli occhi e immaginarne di nuovi.
La Bibbia, che è un serbatoio infinito di parole sorprendenti, definisce la vecchiaia proprio come il tempo dei sogni. Anzi, per la precisione, affida ai vecchi il compito di sognare, quasi si trattasse di un lavoro, o per lo meno di un’occupazione da prendere molto sul serio. E’ la famosa frase di Gioele 3,1 ripresa da Pietro nel suo primo discorso, una delle espressioni comuni quindi ad entrambi i Testamenti, il Nuovo e l’Antico. Una sola riga, capace però di condensare in tre verbi, tre soggetti e due complementi oggetto tutte le fasi dell’esistenza, offrendoci una chiave interpretativa della parabola umana insieme saggia e rivoluzionaria. Sono parole che confermano l’incredibile capacità del testo biblico di spiazzare e di stupire e che hanno diverse valenze interpretative.
Il sogno ha infatti tante facce differenti.
Ha un aspetto di consolazione, perchè ci apre la porta di luoghi inaccessibili e ci permette di vivere occasioni che la quotidianità ci negherebbe. O magari di sfuggire per qualche istante alla tenaglia di situazioni pesanti e insostenibili.
Ha un aspetto di progetto e di speranza, senza ancora l’appesantimento dei dettagli e delle valutazioni di possibilità o convenienza. Ci regala attimi di creatività pura, svincolata dalle infrastrutture del reale e dai vincoli del contingente.
Ha un aspetto di utopia necessaria, perchè ogni rivoluzione è nata da un sogno (anche se, purtroppo, troppo spesso è sfociata in un incubo).
I sogni sono anche evasione, aspetto tanto più importante quanto più si fanno dure le condizioni personali e irrespirabile l’atmosfera collettiva. Il regalo di un attimo di sollievo, che a volte sembra tutto quello che può fare per noi un Dio presente, attento, partecipe, solidale, ma impotente. Quando vedo la tristezza di certe case di riposo, o l’assurdità devastante delle malattie degenerative, mi piace immaginare un Dio che si aggira addolorato per stanze e corridoi ad accarezzare fronti e regalare sogni, brevi momenti di onirica ma autentica liberazione, acconti indispensabili del futuro regno dei cieli per gente prigioniera di un presente molto simile a un inferno.
Da qualunque parte li si guardi, i sogni sono comunque un dono della notte (qualsiasi sia il senso che diamo a questa parola) e la capacità di coltivare sogni può essere preziosa, soprattutto quando le giornate si fanno corte.
Questa capacità di sognare può essere forse l’antidoto alla sindrome da collo torto e da occhiali scuri che ci colpisce a volte quando l’autunno meteorologico si accompagna a quello esistenziale ed epocale.

Cervasca, 23-11-013            lele
Pubblicato sul Granello di dicembre 013