Cassette di risparmio

Quando, nello scorso millennio, frequentavo le elementari si faceva tutti gli anni la Giornata del Risparmio. Nell’occasione, ricordo che una volta una banca locale ci aveva regalato dei piccoli salvadanai metallici con una stretta fessura per infilarci i soldini. Il fondo aveva una serratura, ma la chiave non era stata consegnata insieme alla cassetta: si poteva svuotare solamente in filiale. Lo scopo propagandato era l’educazione al risparmio; quello vero, naturalmente, era acquisire nuovi, giovanissimi clienti per quella che allora era l’unica banca del paese.
In questo momento vedo benissimo il piccolo salvadanaio azzurrino con fondo piatto e forma arrotondata (mentre fatico a ricordare la faccia della persona con cui stavo parlando mezz’ora fa): un sintomo dell’invecchiamento deve essere proprio questo sovrapporsi di immagini fotografiche vecchie di decenni, rimaste intrappolate in qualche angolo remoto della memoria, che tornano a galla e oscurano quelle più recenti.
Colgo l’occasione di questo estemporaneo ricordo per una breve riflessione sul “risparmio”.  
I libri di economia definiscono il risparmio “quella percentuale del reddito che viene accantonata per investimenti o per futuro consumo”. Insomma, un togliere all’oggi per avere domani.
Una certa propensione al risparmio è insita nel nostro codice genetico e deriva dalle nostre più o meno lontane radici contadine e montanare. In tempi in cui la sussistenza era garantita solo dall’autoproduzione agricola era necessario mettere da parte delle riserve. Siccità e gelate, insetti e parassiti, grandine e maltempo rendevano precarie le produzioni annue e la lunga stagione invernale obbligava, soprattutto in montagna, ad accumulare scorte sufficienti per avere qualche garanzia di sopravvivenza.
Per questo, i nostri nonni e le nostre nonne mettevano da parte i soldini ricavati dalla vendita del burro o delle uova, nascondevano nel materasso le poche banconote risparmiate con i lavori di emigrati stagionali, lasciavano in eredità qualche moneta d’oro ai nipoti.  Il “non si sa mai cosa ci riserva il futuro” e una certa abitudine a prevedere sempre il peggio (che poi puntualmente arrivava, come richiamato dai tristi presagi) faceva sì che la gente andasse a dormire con la pancia vuota per lasciare i soldi nella zuccheriera nascosta in cucina.
Al di fuori di esagerazioni e di una certa grettezza d’animo che poteva affliggere – allora come oggi – certe persone, si trattava comunque di un atteggiamento saggio e tutto sommato generoso; addirittura, anche se potrebbe sembrare proprio il contrario, ottimista. Si pensava al futuro, e non solo al proprio, ma anche a quello di figli e nipoti. Si progettava un avvenire migliore per sé, ma soprattutto per i discendenti; anche quelli lontani, sconosciuti, estranei alla famiglia. Si lavorava, inconsciamente, per un concetto di felicità duraturo e affidabile, condiviso e non egoistico, proiettato nel futuro e nell’altro.
Mi pare che oggi si sia smarrita questa dimensione e si ragioni sull’immediato, sul contingente e sul personale. Ognuno pensa a se stesso e a massimizzare la sensazione momentanea di piacere, col bel risultato che stiamo tutti male e che faremo star peggio quelli che vengono dopo di noi. Non in un lontano futuro: sta già capitando per i nostri figli, condannati dalle nostre scelte e dalla nostra leggerezza a una vita peggiore della nostra.
In un certo senso, quindi, il risparmio può essere una cosa saggia e generosa.
Ma la parola, come capita spesso, nasconde significati diversi ed è spesso adoperata in modo improprio. Come tutte le parole, usata male può essere molto pericolosa.
Meglio chiarire subito, quindi, cosa “non è” il risparmio. Cercherò di aiutarmi con esempi concreti.
Chiudere i tribunali di Alba, Saluzzo, Mondovì per concentrare tutto l’immenso lavoro giudiziario con relativo pachidermico arretrato a Cuneo “non è” un risparmio. Lo possiamo definire, al massimo, una costosa stupidaggine.
Accorpare scuole diverse affidandole a un solo preside (pardon, “Dirigente”) consente di risparmiare qualche euro in stipendi, ma nasconde costi colossali per riorganizzare, mettere in sicurezza e gestire il tutto, oltre a trasformare il capo istituto in un lontano burocrate che non conosce neppure più insegnanti e allievi.
Chiudere ospedali e case di riposo nei paesi e nelle valli contribuisce a uccidere la montagna e la campagna, crea enormi disagi agli utenti e concentra i pazienti in mega strutture lontane e di difficile gestione.
Ridare vita e linfa ai “rami secchi” delle ferrovie locali (cosa che molti paesi europei stanno facendo con successo) costerebbe molto meno che occupare militarmente una valle per imporre una linea di alta velocità inutile, dannosa e antieconomica.
Fare l’ordinaria e straordinaria manutenzione alle opere esistenti (strade, ferrovie, edifici) è meno dispendioso che progettarne di nuove. Oppure, rivoltando la frittata: tenere in cassa qualche soldino non facendo la manutenzione di asfalto, locomotori e carrozze non è affatto un risparmio.  Anzi, è l’esatto contrario, perchè significa accollare al domani una mancanza di oggi. Se il risparmio significa privarsi di qualcosa ora per averlo in futuro, è abbastanza chiaro che chi non cambia le tegole rotte e fa marcire il tetto non sta risparmiando, ma va nella direzione opposta.
Gli esempi di falsi risparmi potrebbero essere migliaia: dalla chiusura delle Comunità montane (resuscitate pare con altro nome, con magia tipicamente italiana), all’accorpamento dei piccoli comuni, alla abolizione delle Province.
Spesso, poi, questi falsi risparmi sono in realtà molto dispendiosi perchè richiedono ristrutturazioni e riorganizzazioni e nascondono i soliti interessi poco chiari. In ogni caso si traducono in costi economici, umani e sociali che qualcuno dovrà pagare. E questo qualcuno, guarda caso, siamo noi: gli utenti e i lavoratori.
Se chiudono il tribunale di Alba o di Saluzzo i dipendenti dovranno sobbarcarsi lunghe trasferte quotidiane. Se eliminano l’ospedale di Demonte o Caraglio chi si ostina ad abitare in alta valle dovrà macinare chilometri per raggiungere il capoluogo. Piuttosto che di (molto ipotetici) risparmi sarebbe più corretto parlare di trasferimento di costi dall’ente pubblico all’utente, doppiamente colpito perchè una buona fetta delle sue spese di trasferta ritorneranno nelle casse dello stato sotto forma di accise sui carburanti e tasse varie.
Come nel caso dei salvadanai senza chiave di mezzo secolo fa, molto spesso la parola risparmio si può tradurre con “fregatura”.

Cervasca, 9-11-013                    lele
Pubblicato su La Guida del 15 novembre