Andare per borgate 8

Dopo la triste ma necessaria divagazione fiscale, ritorniamo sul terreno più scorrevole dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’architettura. Abbiamo già visto che i primi due termini costituiscono in montagna un binomio inscindibile, capace di garantire la sopravvivenza di una numerosa popolazione e di mantenere intatta la fertilità per i futuri abitanti. La terza parola, architettura, è anch’essa strettamente legata alle prime due, anzi, ne diventa in qualche modo il risultato tangibile, la materializzazione.
Il montanaro, oltre che agricoltore e allevatore, è anche sempre costruttore. Di questa arte ci rimane la testimonianza proprio negli edifici rurali e nel loro insieme: tetti, borgate, frazioni.
A differenza di adesso, allora chi costruiva, pensava e progettava la casa era lo stesso coltivatore e i risultati erano fabbricati e borgate nati in funzione del loro scopo agricolo.
Le parole che potremmo usare per definire le caratteristiche costruttive sono: funzionalità, razionalità, essenzialità, bellezza. Chi non ama i termini astratti può impiegare i relativi aggettivi, applicandoli ai singoli casi.
Ognuno di questi attributi è strettamente legato agli altri. La casa doveva essere funzionale, cioè servire perfettamente al suo scopo. Per questo si usavano soluzioni razionali. Non ci si poteva certo permettere sprechi o lussi inutili, quindi l’essenzialità era obbligata. L’insieme del tutto si traduceva e si traduce ancor oggi in bellezza, perché le cose funzionali, razionali, essenziali non possono che essere anche piacevoli esteticamente e perché spesso le soluzioni adottate erano geniali e la realizzazione dimostrava cura e abilità artigianale.
Il primo problema da affrontare era la localizzazione degli insediamenti. Le borgate non nascevano a caso e neppure con criteri burocratici come capita di questi tempi, in cui un terreno è adatto ad essere edificato perché lo dice il piano regolatore o perché conviene a qualcuno. Era una scelta importante e delicata, in cui si doveva trovare un compromesso fra le esigenze di sicurezza (da valanghe, alluvioni, frane), quelle di avere una buona esposizione al sole, una facile accessibilità, la vicinanza di acqua e legname, e la necessità prioritaria di non sprecare campi e prati produttivi.
Ci sono borgate costruite sui conoidi di deiezione che formano i ruscelli quando si immettono nel torrente principale, altre su terrazzi modellati dai fiumi o dai ghiacciai, altre in pendio, su ripiani o su colletti e crinali. In tutti i casi si vedono bene i motivi della scelta e i vantaggi della posizione, cosa che ci lascia ammirati. Niente perizie geologiche, allora, nessuno studio fatto da equipe multidisciplinari di architetti, agronomi, dottori forestali, ingegneri idraulici e ambientali. Solo tanto buon senso, una grande capacità di osservazione e, soprattutto, la consapevolezza di non potersi permettere errori.
Certe scelte ci lasciano magari inizialmente perplessi. Per capirle, dobbiamo ricordare la sovrappopolazione del 1800 e l’esigenza prioritaria di mangiare. Così si poteva tollerare un’esposizione all’ubac, sfavorevole in inverno, perché garantiva erba fresca nelle estati asciutte e fieni abbondanti. O si sceglieva di abitare in quota, sopra la fascia del castagneto, perché quel piccolo frutto era troppo prezioso per sprecarne i terreni adatti con costruzioni.
L’esempio di Narbona, grossa borgata ora ridotta a ruderi del comune di Castelmagno è molto indicativo. Costruita su un pendio ripidissimo, spazzato in inverno da continue valanghe, nell’unico settore protetto da una grande roccia a monte che ne garantiva l’incolumità, collegata in modo precario col fondovalle e quindi isolata per lunghi periodi. Chi ci arriva nella bella stagione (nelle altre la gita è sconsigliabile) non può che restare ammirato pensando alle decine di famiglie che vivevano in quel posto estremo, a come abbiano potuto costruire lassù case, scuola e chiesa e alla tenacia e genialità che richiedeva procurasi in quel contesto il pane quotidiano.