Andare per borgate 7

Ho fatto cenno la volta scorsa al fatto che molte notizie degli Archivi Comunali si ricavano dai documenti relativi a tasse e imposte. Se vogliamo sapere quanti animali c’erano in un dato anno basta sfogliare i Ruoli dei Contribuenti per la tassa sul bestiame e fare le relative somme.
Vorrei fare una piccola digressione proprio su questo tema, prima di riprendere il percorso su agricoltura, architettura  e paesaggio. D’altra parte, andare per borgate non è mai una passeggiata lineare, ma è fatta di tante divagazioni e sapere qualcosa del fisco ci aiuta a immaginare come fosse la vita quassù nei “bei tempi andati”. I dati che seguono sono presi dall’Archivio del comune di Rittana, ma sono validi, con piccole differenze, per tutte le nostre valli.
Fra le varie imposte di inizio 1800 la più strana è quella sulle porte e finestre, in proporzione alle dimensioni: “la tassa per ogni porta grande è di 40 lire, per porta e finestra di prim’ordine è di 20 lire, per quelle di secondo piano di 10 lire”.
Un esempio di come il fisco possa influenzare  l’architettura rendendosi responsabile della scarsa dimensione delle aperture e della ridotta illuminazione conseguente, con relativi problemi di ordine igienico-sanitario (rachitismo, malformazioni ossee, disturbi di crescita).
Gli anni peggiori, però, dal punto di vista dell’oppressione tributaria, sono quelli fra la prima e la seconda guerra mondiale. Sugli animali si paga una “tassa comunale sul bestiame” (25 lire per muli, cavalli e buoi, 22 per vacche e manze, 15 per i vitelli, asini, maiali e scrofe, 8 per capre e pecore), una tassa di pascolo, una tassa di scambio, una tassa di macellazione.
Le capre, evidentemente poco gradite al regime, probabilmente perché ritenute dannose per la vegetazione, pagavano in più una salatissima “tassa governativa sugli animali caprini” progressiva a scaglioni come la nostra IRPEF, di 10 lire  a capo fino a tre capi, 15 per i capi eccedenti fino a 10 e ben 20 lire per ogni capo oltre i 10. In questo modo una capra veniva a pagare più tasse di una mucca, di un toro o di un mulo, con evidente sproporzione rispetto a valore e resa: un modo per impedirne di fatto l’allevamento.
Vi era poi una salatissima e impopolare tassa sui cani, che erano divisi in tre categorie: nella terza (cani da custodia del gregge e guardia di edifici rurali) si pagavano 15 lire, nella seconda (cani da caccia) ben 50 lire e nella prima (cani di lusso e di affezione) addirittura 150 lire. Alla cifra, da pagare in due rate semestrali, si aggiungeva il costo della piastrina con numero progressivo da apporre al collo dell’animale, di lire 1,50 a favore dell’Unione italiana ciechi. In questo modo, nel 1932, un cane da caccia pagava come dieci asini o cinque mucche.
L’elenco delle tasse di quel periodo continua poi con altri tributi di vario genere, dimostrando che l’inventiva in campo fiscale non è appannaggio dei tempi attuali. Si va dalla “tassa di circolazione sui veicoli a trazione animale e sui velocipedi” che colpisce quindi carretti e biciclette, a quella sulle “vetture pubbliche e private”. Seguono “l’imposta sui domestici”, “l’imposta sui pianoforti e sui bigliardi”, “l’imposta di licenza”, “l’imposta sulle macchine per caffè espresso”, la “tassa per l’esercizio di distributori di carburanti”, “l’imposta Industrie, Commerci, arti e Professioni”, “l’imposta di patente” e la “tassa sulle insegne”, oltre, naturalmente, alla “tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche” e alla tassa di famiglia e relativa sovrattassa.
Famosa per la sua originalità è poi negli anni 30 la “tassa sui celibi” che colpisce chi non è sposato.
E’ oggettivamente difficile confrontare il livello di tassazione di allora con quello odierno, per molti motivi che vanno al di là del potere di acquisto della moneta e dell’inflazione. Lo Stato dell’ottocento e di inizio novecento forniva al cittadino molti meno servizi, il welfare era ancora un concetto sconosciuto e di certo, a livello di numeri, la pressione fiscale era ridotta rispetto a quella attuale.
Resta la forte impressione, tuttavia, di una tassazione pesante e in qualche caso vessatoria (capre, cani), soprattutto se si tiene conto della società di allora, a scarsissima circolazione monetaria, in cui le entrate erano ridotte e molto si basava sullo scambio di lavori e sul baratto di prodotti. Le “roide”, turni di lavoro obbligatorio da offrire al Comune, appesantivano poi ulteriormente il quadro delle imposizioni.
Procurarsi in contanti le lire sufficienti a pagare le tasse doveva essere un problema per molte famiglie, forse ancor più che procacciarsi il cibo quotidiano.
Confermano questa impressione diversi ricorsi contro l’eccessiva tassazione di terreni e attività. In uno di questi datato 1932, il richiedente afferma che “specie nelle annate non favorevoli all’agricoltura è con estrema fatica che si riesce a trarne il solo misero sostentamento”.
Chi ha provato a coltivare in montagna non può dargli torto.