Andare per borgate 3

Chi va a spasso per borgate, oltre al consueto bagaglio dell’escursionista (zaino con panini e borraccia, macchina foto, scarponcini) deve portarsi dietro anche altre cose meno materiali ma altrettanto importanti.
La prima è senz’altro il rispetto. Rispetto per le proprietà, per gli oggetti, per case, prati, cortili, per il lavoro altrui, per la vita e la storia passata fra quei muri, per la fatica e l’arte di chi li ha costruiti. Rispetto che ci impedisce di varcare soglie, di invadere spazi, di aprire porte chiuse: insomma, di comportarci da padroni o invasori. Norme dettate, oltre che dalla morale e dal Codice civile, anche dalla elementare prudenza, visto che molti edifici sono pericolanti e i rischi di crolli o di caduta di lose sono elevati.
Purtroppo, quasi tutte le nostre borgate sono state saccheggiate da ladri di vario genere, alla ricerca di improbabili tesori, di “ricordini” insoliti, di utensili inconsueti. Alle volte, si tratta di veri e propri furti di cacciatori di antichità professionisti che riciclano poi il bottino nei vari “mercatini delle pulci”; spesso, invece, è solo l’imperdonabile arroganza e prepotenza del turista di passaggio che si crede padrone di ciò che trova solo perché incustodito.
Tutte le nostre borgate, anche le meno accessibili, sono state violentate da questi ladri di ricordi. Porte sfondate, armadi rovesciati, attrezzi rubati. Nei miei primi giri nella montagna degli uomini, agli inizi degli anni 70, intravedevo spesso interni di case abbandonate ordinati e ricchi di suppellettili, come se gli abitanti fossero usciti un attimo prima e dovessero rientrare da un momento all’altro. I piatti a scolare, la giacca appesa, la pentola nel camino. Scene di vita congelata dall’abbandono, dall’emigrazione, magari da una morte improvvisa, ma ancora capaci di testimoniare cura e attenzione e di raccontare una storia.
Tornando anni dopo negli stessi posti, tutto era stato asportato o rovinato dalla disonestà e dalla stupida arroganza di ladri di passaggio.
E’ vero che gli oggetti di uso quotidiano e gli attrezzi di lavoro nascosti fra le case in rovina sono preziosi – non in senso economico! –  ma lo sono solo in quanto legati a un ambiente e a una storia e capaci di raccontarcela e di farcela rivivere. Fuori dal loro contesto sono come fiori strappati dal prato o pesci fuor d’acqua, avvizziscono e perdono ogni significato, trasformandosi da importanti testimoni di vita vissuta a emblemi del cattivo gusto. La ruota di un charous ci racconta la maestria artigiana dei costruttori – i sarouné e i fabbri – la paziente fatica della mula che trainava il carico, il lavoro del contadino per cui quel semplice carretto era un grosso investimento che richiedeva anni per essere ammortizzato. Appesa al muro di una villa non ci dice più nulla, se non il dubbio gusto e la scarsa sensibilità del proprietario.
Un utensile è strettamente legato a chi lo usa e a chi lo ha costruito e ha un senso funzionale ed estetico solo nel suo ambiente.
Fra l’altro, chi ruba o devasta non si rende conto della fatica e dell’arte contenuta nei manufatti asportati o nelle cose rovinate. Una semplice porta, sfondata magari a calci dall’idiota di passaggio, ha richiesto per costruirla un lavoro e un’abilità artigiana oggi impensabili. Abbattere con l’accetta o il trouplòou una grossa pianta, ricavare le assi dal biùn con l’enorme sega a telaio mossa con perizia e coordinazione da tre persone, farle stagionare per anni, rifinirle con le varie pialle a mano, fare gli incastri a tenoun e mourtasa con la tinivela e lo scalpello, assemblarle con i chiodi forgiati dal fabbro nel paese di fondovalle, montare infine cardini e serratura. Un lavoro di precisione e pazienza, distrutto in un attimo dal gesto inconsapevole e arrogante di un vandalo.
Dai nostri giri nelle borgate l’unica cosa che possiamo portarci a casa sono l’aria buona, la soddisfazione, molti insegnamenti, una certa calma esistenziale e, se vogliamo, qualche fotografia.