Forestieri e inquilini

Quando Vandana Shiva ha saputo della nascita in Italia di un forte movimento contro il consumo del territorio ha commentato semplicemente: “Era ora che anche voi vi muoveste”.
Una frase simile, a rimarcare lo stupore per l’indifferenza con cui abbiamo finora scarsamente difeso il nostro patrimonio di natura, paesaggio e terreni agricoli, l’ho sentita ripetere più volte da molti amici stranieri. Chi era venuto dalle nostre parti venti o trent’anni fa e ci ritorna adesso, è sovente colpito e amareggiato dal degrado e dall’imbruttimento di posti che ricordava meravigliosi e incontaminati. Noi ce ne rendiamo meno conto, immersi nella quotidianità di piccoli, impercettibili cambiamenti. E’ come con le persone: i segni del tempo li percepiamo solo in chi non vediamo spesso.  
Commenti del genere ci fanno pensare che noi italiani siamo sovente i peggiori nemici dell’Italia: in pochi anni siamo riusciti a trasformare il Bel Paese in una informe periferia diffusa.
Di chi la colpa di questo scempio?
Dell’ingordigia, della stupidità e dell’indifferenza, se vogliamo tenerci sul piano generale e personale.
Della legislazione nazionale, della mancanza di pianificazione regionale e comunale, se preferiamo entrare nel dettaglio delle questioni tecniche e legislative.
Le prime tre cause possono sembrare un elenco banale di vizi o peccati capitali, in realtà riguardano ognuno di noi e sono molto più importanti delle norme urbanistiche e delle scelte politiche. Le leggi, in uno stato democratico, sono responsabilità diretta o indiretta dei cittadini e gli eletti sono espressione dei votanti. Inutile prendercela con governo, amministratori e partiti se prima non curiamo i nostri stessi difetti.
La terra ha sufficienti risorse per le necessità di tutti, ma non ne ha abbastanza per
l’ingordigia di pochi, avvertiva Gandhi con la sua profonda e profetica semplicità.
L’ingordigia è il peccato originale, continuamente rinnovato, che ci ha cacciato dal Giardino dell’Eden ed è padre e madre di tutte le ingiustizie.  
E’ parente stretta della stupidità che ci fa sprecare allegramente una risorsa fino a consumarla, ingozzandosi adesso per fare la fame domani.
Uso qui la parola fame nel suo significato letterale, quello che nessuno di noi conosce più. Un paio di generazioni sono bastate per cancellare dal nostro ricordo questa sensazione che ha accompagnato l’uomo per tutta la sua storia. Non è per nulla scontato che lo spettro della denutrizione non si affacci di nuovo nella nostra obesa civiltà dei consumi. Siamo una società complicata ed estremamente fragile: bastano due dita di neve e qualche giorno gelato per mandare in tilt mezza nazione. Non è catastrofismo, in questa Italia urbanizzata, disorganizzata e sprecona, ipotizzare un futuro in cui riempirsi la pancia diventi un problema reale.
Meglio, allora, tenerci ben stretti campi, prati, orti e boschi.
Per capire il concetto di stupidità basta un esempio finanziario. Una persona che abbia ricevuto in eredità un enorme somma può vivere di rendita con gli interessi. Questa felice condizione può durare per sempre, a patto di non intaccare il capitale e di custodirlo con attenzione. Se l’erede, per ingordigia consuma la somma iniziale e la spreca si condanna alla povertà futura.
E’ un comportamento imprevidente, che si ritorce contro se stessi e la propria discendenza e ben si merita il poco onorevole attributo di “stupido”.
L’indifferenza, il terzo termine nell’elenco dei peccati capitali, è per me il male del secolo. Lasciarsi trasportare dalla corrente, delegare ad altri le scelte, non prendere mai posizione. Salvo poi criticare a posteriori o dire che tanto son tutti uguali e che “non dipende da me”.
Le cause tecniche, storiche e legislative del degrado hanno radici in tempi lontani, nel boom edilizio del dopoguerra, in una ricchezza che ci ha colti impreparati e ci ha fatto perdere di vista la reale scala di valori.
Nel 77, con la legge 10, conosciuta come Bucalossi, scompariva la vecchia licenza edilizia e nasceva la concessione onerosa. Il diritto di costruire era in pratica scorporato da quello di proprietà e veniva “venduto” a caro prezzo a chi intendesse edificare. Per ogni nuovo fabbricato i comuni incassavano gli oneri di urbanizzazione, cifre cospicue destinate a diventare nel tempo uno dei principali introiti delle affamate casse municipali.
Questi tributi, uniti al gettito ICI, sono il carburante con cui gli enti locali fanno fronte a spese crescenti e a trasferimenti dallo stato in costante diminuzione, col risultato di distruggere il territorio e intaccare pesantemente il capitale di cui si parlava prima.
In realtà questi incassi sono più fittizi che reali, nel senso che il comune riceve subito cifre elevate, ma poi avrà spese che si protraggono per sempre per fornire e mantenere le infrastrutture. A conti fatti, un cattivo investimento, ma sovente necessario per tappare i buchi contabili della gestione corrente.
Scendendo di livello, una delle cause tecniche del degrado del territorio la dobbiamo cercare in Piemonte. La gestione di edilizia ed urbanistica è infatti da tempo di competenza regionale. Da allora ci sono stati governi di destra, di sinistra e di nuovo di destra, ma tutti ugualmente incapaci di una programmazione efficace e razionale.
Se girate per l’Europa, trovate in ogni stato ampie zone artigianali e industriali. Ma sempre localizzate in posizioni strategiche e concentrate, in modo da minimizzarne l’impatto. Ogni regione, ogni provincia ne ha alcune –tre, quattro, cinque, magari dieci – dotate di infrastrutture stradali e ferroviarie, di trasporti per i dipendenti. Il resto del territorio rimane integro. Noi ne abbiamo tre, quattro, cinque per ogni comune, mal collegate e capaci di dare la sensazione di quella periferia diffusa, grigia, informe di cui parlavo all’inizio.
Provate a confrontare le colline della Borgogna con quelle delle Langhe, la valle del Danubio, del Reno o dell’Inn con quella del Tanaro e la differenza salterà agli occhi.
In mancanza di una vera programmazione, ogni comune ha fatto da sé, sovente guardando più agli incassi immediati che al bene futuro. Senza entrare nel merito di interessi speculativi, intrallazzi, previsioni di crescita “ottimistiche” nei piani regolatori, scambi di favori reciproci fra amministratori, progettisti, costruttori e proprietari. Insomma, senza addentrarci in ciò che la Corte dei Conti definisce “corruzione” palese o occulta, e che vale da sola una buona manciata di manovre economiche come quelle, passate, presenti e future, che ci stanno rovinando l’esistenza.
Tre cause remote, tre cause tecniche. Per simmetria dovrei parlare di tre effetti. Mi limito a tre definizioni, per necessità di spazio: tristezza, rimpianto, rabbia.
La tristezza ha un colore: il grigio, lo stesso del cemento.
Il rimpianto è per quello che era e che non è più e soprattutto per non aver fatto tutto il possibile per fermare il degrado.
La rabbia diventa un sentimento positivo quando si traduce in determinazione, pacata, composta, ma ferma.
Per non chiudere la chiacchierata con queste brutte parole mi piace ricordare una bella frase dell’Antico Testamento in cui Dio rammenta all’uomo di non credersi padrone del mondo: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Levitico 25, 23).
Se riuscissimo a coglierne l’essenza profonda, non ci sarebbe molto altro da aggiungere, su questo e su tanti altri argomenti.

Cervasca, 19-2-012                  lele
Pubblicato su La Guida del 24-2-012