Custode del diritto

Sul manifesto che ne annunciava la morte, accanto al nome,  non c’erano titoli accademici o professionali, ma una qualifica molto più significativa e profonda: “cultore del diritto”. Per definire un uomo, per raccontare una vita non bastano certo le parole: ci vogliono i sorrisi, gli slanci, la rabbia, il coraggio, la stanchezza, l’ostinazione, la generosità. Ma quella breve frase è un buon riassunto: ha molto di tutto questo.
Perché cultore del diritto vuol dire custode delle parole – dell’importanza delle parole – e operatore di giustizia.
Con terminologia artefatta anche il diritto cessa di essere garanzia di uguaglianza e diventa mezzo di sopraffazione. Ogni dittatura nasce dal vocabolario, inizia con lo spaccio di parole vuote o drogate e con la loro adulterazione. Ce lo insegna in modo splendido Victor Klemperer, filologo tedesco ebreo costretto a vivere di stenti nel ghetto che ha raccolto in un taccuino le prove di come l’avvento del nazismo abbia avuto come causa e come effetto una contraffazione del dizionario. Ma non ci occorrono, purtroppo, esempi storici né grandi sforzi di immaginazione per capire i risultati perversi della manipolazione del linguaggio da parte del potere economico e mediatico. Sono sotto gli occhi di tutti il degrado della politica, lo svuotamento delle istituzioni, l’attacco ai beni comuni, l’erosione dei diritti, l’abuso di toni urlati, gli insulti, i pensieri ridotti a slogan, che ci stanno portando, nell’indifferenza generale, all’eutanasia del sistema democratico. Giancarlo se ne era reso conto da molto tempo, grazie alle sue conoscenze giuridiche, alla costanza nell’attenzione e a quella forma di intelligenza applicata che porta a una sorta di preveggenza. E, dopo aver servito la collettività nella professione giuridica, stava spendendo la sua vita di pensionato attivo nella lotta appassionata e ostinata per custodire il diritto, per farlo rimanere strumento di giustizia.
Il termine “giustizia” è sempre nei Vangeli legato a verbi di fare, operare. La giustizia non è nel mondo delle idee e delle intenzioni, ma richiede una pratica, uno sporcarsi le mani, uno schierarsi.
Nel nostro ultimo colloquio mi ha colpito di Giancarlo proprio questo aspetto: il rigore intellettuale dello studioso di alto livello unito alla capacità di mettersi in gioco, di trasformare le idee in fatti e in gesti concreti. In altre parole, di “sbattersi” con una forza e un entusiasmo giovanili che mi hanno sinceramente meravigliato. La disponibilità non solo a interessarsi, ma a farsi coinvolgere, arrivando fino alla rabbia e al dolore, acuiti dalla conoscenza profonda della situazione politica e giuridica del nostro povero Paese.
Una forma estrema di altruismo, quella di “farsi carico” del degrado che ci circonda invece di ritagliarsi un angolino tranquillo in cui vivere “in pace”.
Significa aver compreso bene anche il valore dirompente di questa parola: “pace”, così sovente scambiata per tranquillità o ignavia. E’ la pace di Cristo, quella che lui dà ai discepoli immediatamente prima della passione, precisando che è di natura e consistenza diversa da quella che intende il mondo. Non è apatia, non è quieto vivere, non garantisce assenza di sofferenza e preoccupazioni, non risparmia conflitti con le autorità civili e religiose, non immunizza da rabbia e tensioni, neppure nei confronti di Dio (come ci insegnano Giobbe e lo stesso Cristo).
Tutti abbiamo conosciuto Giancarlo come studioso e come cultore del diritto. Mi piace ricordarlo anche come autore di fiabe, di narrativa e, soprattutto, come poeta.
Nel diritto la parola è precisione e garanzia, nel racconto è libertà e relazione. Ma quando il tempo si fa breve, quando non è più momento di divagazioni, anche la parola si asciuga e diventa essenziale. Diventa un grido, un soffio, un richiamo. Ed è quello che definiamo poesia.
Quando una persona che per noi è stata importante muore diciamo che lascia un vuoto. E’ senz’altro vero, soprattutto per le scomparse improvvise, ed è una sensazione lacerante, inevitabile e immediata. Io penso, però, che una persona come Giancarlo lasci piuttosto un “pieno”. Il vuoto (quello vero, non la percezione dolorosa di chi resta) lo lasciano le persone che hanno vissuto per sé, ansiose di accumulare e apparire, incapaci di dare e di mettersi in gioco. Per questi la morte è proprio la fine di tutto, il crollo del castello di carte fatto di illusioni, piaceri, potere, interessi, intrallazzi.
Chi ha vissuto per gli altri, invece, continua a vivere negli altri.
Col tempo questo “pieno” si fa sentire come presenza solida e reale anche in chi resta, prende il sopravvento sulla disperazione del distacco.
“Ognuno è il resto di un nucleo di persone scomparse: le nostre vite diventano il luogo dove chi ci ha accompagnato o preceduto continua a vivere” (le virgolette sono forse di troppo, la mia memoria non mi consente più citazioni testuali, ma questo è comunque il senso di un pensiero espresso da Erri De Luca durante la sua recente conferenza a Caraglio).
E’ una forma laica di resurrezione e di vita eterna, questa, a cui arriva anche la mia poca fede. Anzi, questa continuazione della vita e dell’amore è una dei pochi articoli del credo che hanno per me la forza dell’evidenza,  così da meritare la definizione di certezze.
E’ pensiero consolante, questo durare dell’amicizia oltre la morte, questo proseguire il dialogo (con Giancarlo per me appena iniziato).
Ed è eredità impegnativa e difficile da onorare.

Cervasca, 24 maggio 011          lele