Breve dizionario d’inglese corrente

L’inglese è entrato nelle nostre vite, ma io non sono mai riuscito a farlo entrare nella mia testa. E dire che ci ho provato a più riprese, fin da piccolo, seguendo con diligenza corsi e lezioni di vario tipo. Si tratta, credo, di un blocco psicologico che mi impedisce di pronunciare con scioltezza nomi scritti in modo così diverso da come si leggono da rendere incerta la corrispondenza fra fonetica e grafia.
Ma, visto che la legge di Liebig consiglia di concentrare i propri sforzi proprio nel settore di maggior debolezza, cercherò di affrontare parole inglesi entrate di recente con prepotenza o in modo subdolo nella nostra vita quotidiana. In questo sono avvantaggiato, come sempre, dalla forma scritta, che mi mette al riparo dall’obbligo di pronunciare suoni a me ostici, esponendomi così alla vergognosa figura del  provinciale che vuol fingersi evoluto. Uomini di mondo lo siamo tutti, noi cuneesi del dopo-Totò, non abbiamo bisogno di dimostrarlo sfoggiando accenti oxfordiani.
Multitasking significa fare diverse cose insieme. E’ una caratteristica dei moderni computer che, con l’aumentare della potenza di calcolo e della memoria sono diventati in grado di gestire nello stesso tempo operazioni diverse. Così posso scrivere mentre il sistema controlla i virus e scarica la posta, col sottofondo dell’immancabile musichetta. Comodo e funzionale, finché resta confinato nel mondo virtuale dell’informatica. Pericoloso e a volte devastante, se contagia la vita quotidiana. E non solo per l’evidente legge matematica per cui al moltiplicarsi del numero di attività contemporanee si divide proporzionalmente l’attenzione per ognuna di esse. Il fatto più grave è che produce, assieme a suo fratello minore, lo zapping, un’incapacità progressiva di concentrarsi su quel che si sta facendo, di prestare attenzione, di prendersi il tempo per far bene le cose. Tutto ci scivola addosso, navighiamo in superficie (non a caso il termine nautico è stato adottato a pieno titolo dal mondo di internet), senza capacità di immersione, con rotte casuali generate dagli algoritmi dei motori di ricerca.
Zapping è termine che ricorda quel diabolico aggeggio che si chiama telecomando e che ci consente di cambiare canale senza neppure alzarci dalla poltrona. Ci ha insegnato a saltare di palo in frasca, a non sopportare alcuna attesa, a sfogliare invece di leggere. Parliamo con qualcuno senza prestargli attenzione mentre vaghiamo con lo sguardo alla ricerca di un altro interlocutore più interessante.  Crediamo di sapere tutto perché ne abbiamo vagamente sentito parlare e abbiamo perso perfino la consapevolezza della nostra ignoranza. Facciamo molte cose insieme, perché le nostre giornate sono diventate un contenitore da riempire con più attività, emozioni, sensazioni, suoni e parole possibile. Saltiamo da una cosa all’altra, perché non abbiamo equilibrio sufficiente per stare fermi. Come ci insegna la bicicletta, il movimento aiuta a non cadere. Siamo come ciclisti alle prime armi costretti a muoverci, a continuare a pedalare per non dover confessare a noi stessi di non essere capaci di stare in piedi, per nascondere il buco nero che abbiamo dentro: la mancanza di un senso profondo dell’esistenza
Nei rapporti umani lo zapping rende incapaci di ascolto e di attenzione e crea relazioni labili e fluide in cui ognuno usa il prossimo come specchio di se stesso. Cerchiamo nell’altro un interlocutore e un “pubblico”, ma non ci interessa incontrarlo davvero. Anche perché per incontrare qualcuno bisogna uscire dal nostro territorio, farsi appunto “incontro” e lo zapping non prevede sconfinamenti.
Outsourcing si potrebbe tradurre “delocalizzazione”, ma il termine sa più di economia aziendale che di vita pratica e ricorda le tante aziende con nome  italiano, europeo o nordamericano che sfruttano il lavoro a buon mercato dei paesi meno sviluppati mettendo un marchio famoso al sudore altrui. Nel nostro quotidiano significa piuttosto affidare a terzi la gestione di cose che dovrebbero essere strettamente personali, delegare compiti e capacità a qualcuno o qualcosa che sta fuori di noi. Perdendone, in tutto o in parte, il controllo. Usiamo sempre meno, ad esempio, la memoria, sostituendo la fatica dei neuroni con gli archivi informatici di computer, telefonini, palmari.
Abbiamo calcolatrici per far di conto, segreterie per ricordarci gli appuntamenti, correttori automatici di testi per evitare errori grammaticali, gps per non sfogliare cartine stradali, apparecchi televisivi per non sforzare troppo la fantasia, telecomandi per non doverci alzare.
Siamo diventati tutti professionisti della delega. Deleghiamo il calcolo delle imposte al CAF, le rivendicazioni ai sindacati, la gestione della città agli amministratori, la politica agli eletti.
E questi ultimi, stretti fra la necessità di lasciar solide tracce del proprio operato e la ristrettezza dei bilanci, si fanno sovente tentare dal project financing.
Questo doppio termine indica uno strano matrimonio fra pubblico e privato per la realizzazione di opere di utilità generale. Matrimonio di convenienza, in cui sovente entrambi i partner danno il peggio di sé, scaricando le spese del cerimoniale sulle spalle dei cittadini. Il politico taglia il nastro e vive il suo momento di gloria, la ditta costruttrice calcola i futuri profitti e la redditività dell’investimento, e noi, per citare di nuovo Totò, paghiamo.
E’ successo per il buco (in tutti i sensi) di piazza Boves, sta succedendo per il nascente Movicentro che trasformerà in parcheggi a pagamento tutta la zona dell’ospedale e della stazione. Scelta che ritengo grave e ingiustificabile (anche se gli amministratori sapranno, come sempre, trovare le parole per addolcire la pillola, magari scomodando l’ambiente, la necessità di rotazione, la possibilità di trovare sempre posti liberi).
Chi va all’ospedale lo fa per lavoro, per assistere malati o per proprie necessità di salute. Attività tutt’altro che ludiche, su cui non mi pare bello speculare. E far pagare il parcheggio alla stazione equivale a disincentivare l’uso del treno, alla faccia dei sempre sbandierati propositi ambientalisti.
Trovo triste che la parola “Comune” che dovrebbe ricordare la bellezza e l’importanza dei beni appunto “comuni”, a disposizione di ognuno (fra cui anche il suolo pubblico, le vie, le piazze) si sia progressivamente allontanata dall’idea iniziale di “cosa di tutti” per trasformarsi in un ente salassatore impegnato a trovare sempre nuovi modi di spillar soldi ai cittadini. Non per colpe solo sue, certo, vista che la dissennata politica nazionale ha tagliato gli introiti degli enti locali aumentandone nel contempo le incombenze; ma certo anche per scelte discutibili e rischiose, come appunto il project financing di cui sopra.
Bene, ora sarà meglio che esca a fare due passi per disintossicarmi da tutto questo inglese e scacciare col movimento la nascente tristezza. Uscirò da casa mia, qui al Budarèl, arriverò alla Cumba passando per ruà di Ramadàn e salirò fino a Scola di Bosc.
Magari non li so scrivere con la grafia ortodossa, ma almeno questi nomi li pronuncio senza troppa fatica e non contengono fregature nascoste.
Pubblicato su La Guida del 6 maggio 2011