Invettive profetiche

“Guai a voi che aggiungete casa a casa e podere a podere, finché non vi sia più spazio”. Sono parole di Isaia, il profeta (Is 5,8), quindi, per il credente hanno il peso specifico della parola di Dio.
“Profeta” è uno dei tanti termini che usiamo a sproposito, degradandolo a sinonimo di indovino, quasi fosse una sorta di mago o un imbonitore di oroscopi ante-litteram.
In realtà, profeta è colui che traduce la voce divina, adattandola all’epoca e al luogo, dandone ai contemporanei una versione corretta e comprensibile. Perché il tempo, l’uso e l’abuso consumano anche la Parola, ne smussano gli spigoli, la riducono a luogo comune. Oppure ne cambiano il significato originario, fino a stravolgerla, a imbalsamarla, a renderla incomprensibile.
Il profeta fa allora come l’arrotino, restituisce il filo e il taglio, toglie le scorie e le incrostazioni. Le ridà forza e vigore, cosa non sempre comoda per chi ascolta (soprattutto se dal piedistallo di una gerarchia politica o religiosa) e sovente rischiosa per chi parla. Al punto che la distinzione fra veri e falsi profeti passa proprio attraverso la discriminante dell’accoglienza e del trattamento ricevuto, con una sorta di regola di proporzionalità inversa che pare non ammetta eccezioni (Lc 6,26)
Sono passati duemilasettecento anni, ma non abbiamo bisogno di grattare via la ruggine da questa frase: l’avvertimento/maledizione di Isaia conserva tutta la sua forza e la sua freschezza senza necessità di alcuna terapia aggiornativa. Al massimo, visto che in questo inizio di terzo millennio l’agricoltura pare attività fuori moda e obsoleta, possiamo sostituire la parola “podere, campo” con capannone-strada-circonvallazione-svincolo-rotonda o qualsiasi altra infrastruttura capace di divorare territorio e paesaggio.
Colpisce la forza quasi violenta della frase, soprattutto riferita alla situazione di allora, con un’economia basata su pastorizia e piccola coltivazione e una bassa densità di popolazione. C’è da chiedersi quali invettive userebbe adesso il profeta se passasse da queste parti, magari arrivando a Cuneo da una delle innumerevoli zone industriali seminate a spaglio nella cintura, o passando abusivamente a piedi attraverso svincoli autostradali immersi in quella “periferia diffusa” che ha sostituito paesi e città.
E si è mangiata tutta la varietà dei colori, sostituendo la tavolozza dell’iride con la triste gamma dei grigi. Dal grigio chiaro degli autobloccanti a quello scuro dell’asfalto, passando per quello polveroso del cemento e quello metallico dei guard-rail.
Una visione monocromatica, avvolta dalla nebbia dell’uniformità, dalla sporcizia di bordi stradali usati come discariche, dall’invadenza dei cartelloni pubblicitari, dal perenne corteo di automezzi. L’antitesi di quello che dovrebbe essere il “paesaggio”, inteso come l’ambiente percepito attraverso i sensi, nato dall’interazione fra i milioni di anni di lavoro della natura e le centinaia o migliaia di anni di sforzo dell’uomo.
Un concetto che racchiude in modo armonico geologia e architettura, agricoltura e botanica, storia e attualità, economia e vita quotidiana.
Gli occhi, ma anche gli altri organi di senso, sono porte aperte, attraverso cui entrano in noi percezioni ed emozioni che si stratificano, colorando le nostre giornate di verde o di grigio, di nero o di azzurro. Bellezza o bruttezza, ordine o caos, armonia o squallore, attraverso la vista entrano a far parte di noi, del nostro vivere quotidiano e si traducono in serenità o depressione, in buon umore o malinconia.
Un ambiente positivo favorisce una vita distesa, il paesaggio esteriore si riflette in quello interiore. Lo squallore che ci circonda rischia di rendere grigie le nostre giornate, di avvelenare i rapporti, di “interiorizzarsi” in un orizzonte spirituale e intellettuale piatto e cupo.
Il paesaggio è anche la forma più pura e nobile di “proprietà”. Quando guardo un bosco, una borgata alpina, un prato, una bella casa, li faccio “miei” attraverso la vista, divento fruitore senza bisogno di atti notarili e senza pagare tributi. E’ una ricchezza esente da dazi e gabelle, da manutenzioni ordinarie e straordinarie, da federalismi fiscali e cedolari secche, da registrazioni e accatastamenti. E’ una forma di proprietà capace di mettere d’accordo Marx e San Francesco, che si coniuga con la leggerezza e la libertà, non genera preoccupazioni e paure, non teme – per usare termini evangelici- ladri, ruggine e tignole. E’ l’unica proprietà “giusta”, a disposizione del ricco come del povero, del potente come dell’umile, del vecchio e del bambino, del sano e del malato.
E’ la prima e più importante ricchezza di ogni comunità, il primo di quelli che chiamiamo “beni comuni”.
Purtroppo, è anche quello minacciato in maniera più subdola.
A differenza di altri beni fondamentali, come l’acqua, colpiti dall’arroganza cieca dell’economia di mercato attraverso l’evidenza di leggi e decreti, il paesaggio subisce un attacco continuo e quasi impercettibile, viene rosicchiato giorno dopo giorno, un pezzettino alla volta, sfuggendo alla nostra capacità di attenzione.
Perché non è affatto vero che per conoscere un posto sia necessario o utile viverci. La quotidianità addormenta lo sguardo, lo rende incapace di cogliere i cambiamenti. Andiamo, veniamo, ma non “vediamo”, non fissiamo l’attenzione, diamo per scontato. Bisognerebbe partire, starsene via per un lungo periodo e tornare con occhi freschi, per rendersi conto veramente di quel che è capitato, di come abbiamo ridotto il microcosmo che ci circonda, di come abbiamo custodito male la nostra porzione di giardino.
I veri profeti sono traduttori, non autori, non inventano nulla. Isaia non fa eccezione: nella sua invettiva si limita a riprendere quello che considero il comandamento “originale” espresso nel primi versi di Genesi, quindi molto tempo prima che Mosè fissasse in pietra e numeri la volontà divina.
Appena terminata la creazione, Dio dà all’uomo il compito di “custodire” il giardino. Lo vuole come complice, o aiutante, gli affida la responsabilità, lo “assume”, in pratica, come giardiniere.
Isaia non fa che ricordare ai contemporanei i termini del contratto, si scaglia contro l’ingratitudine dell’ospite che si crede padrone, contro l’ingordigia del bracciante che si comporta come fosse proprietario e ruba “spazio” non suo, sottraendolo a tutti gli altri.
L’invettiva profetica, come ogni parola ispirata da Dio, non ha confini di tempo e di spazio, dobbiamo sentirla come rivolta a noi tutti, qui e adesso, nel nostro angolo di provincia granda. Dobbiamo fare tutto il possibile per custodire la bellezza di questo “giardino” incorniciato da montagne magiche, incastrato fra la piramide aguzza di Viso e quella tronca della Bisalta. Incominciando, come sempre, dalle piccole cose della quotidianità, rispettando con le scelte personali l’ambiente e pretendendo da politici e amministratori di ogni ordine e grado analogo rispetto.
In Italia, mai come adesso si è spezzato il filo che lega eletti ed elettori (complice anche, ma non solo, la peggior legge elettorale del mondo democratico). E’ diventato così minimo anche il “controllo” di ogni cittadino sul “proprio” territorio.
E’ curioso notare che questo avviene proprio nel momento in cui trionfano localismi, federalismi e nazionalismi veri o di pura fantasia.

Cervasca, 12 gennaio 011 pubblicato su La Guida del 28-1-011