Domande (senza) risposta

In genere, chi scrive un articolo sostiene una tesi, fornisce spiegazioni, propone il suo parere motivato su un certo argomento. Ha una propria idea di fondo e impiega un certo numero di parole per convincere chi legge della bontà del suo ragionamento. Eventuali citazioni servono a dare manforte all’autore: si usa, in pratica, l’autorevolezza e il peso specifico di un nome noto per puntellare la costruzione mentale e far pendere la bilancia del consenso dalla propria parte.
Le righe che seguono non rientrano in questa categoria.
Parlo di un argomento che in questi giorni occupa i miei pensieri – la gioia, la felicità – su cui non solo non ho certezze (cosa per me normale), ma neppure idee chiare e nemmeno risposte: solo domande. Provo a condividerne alcune con voi, aspettandomi, magari, il regalo di un aiuto nella strada della comprensione.
La prima domanda è già tutta nella definizione. Cos’è la felicità?
Senza disturbare vocabolari e trattati di psicologia o filosofia, mi chiedo semplicemente se la gioia sia un solido, un liquido o un gas, se cioè abbia forma e dimensioni proprie o si adatti a quelle del contenitore (cioè noi stessi), se sia uno stato o un divenire.
La felicità, per molti, è infatti un’accelerazione, sta tutta nel cambiamento: sarebbe quindi cosa estremamente fluida. In parte, questo può essere vero: noi non percepiamo la velocità quando è costante. Su un aereo che sfreccia a mille chilometri l’ora fra le nuvole ci sembra di essere fermi, mentre in bici bastano cento metri di discesa ripida per toglierci il fiato. Così la nostra sensazione di contentezza non è determinata dallo star bene, ma dallo stare “meglio” o “peggio”.
Questo sistema di regolazione interno, una sorta di termostato che registra il nostro stato di benessere, può essere una necessità, a volte, addirittura, una benedizione. E’ anche una specie di “giustizia” terrena, una sorta di anticipo di quella escatologica, perché condanna i gaudenti professionali a godere sempre meno (per la semplice legge dell’assuefazione) e lenisce gli acciacchi di chi è colpito, altrettanto professionalmente, da mali e disgrazie. Ci permette di far fronte a situazioni altrimenti insostenibili, attenuando dolori e diluendo tragedie. E obbliga gli Epuloni di turno (mi viene in mente, guarda caso, un nome che fa proprio rima con quello di fantasia tradizionalmente affibbiato al ricco di Luca 16) alla rincorsa disperata e perdente di sempre nuove sensazioni.
Ma la gioia può essere, anche e soprattutto, una condizione stabile e solida, non legata agli sbalzi umorali, del tutto diversa dall’eccitazione dell’attimo, al riparo addirittura dalle traversie dell’esistenza e dai capricci del destino.
Incerto già sulla sua natura chimico-fisica, mi chiedo poi se la felicità possa convivere con la rabbia, se abbia abbastanza consistenza per resistere all’usura del tempo, alla perdita della salute, al dolore, all’impotenza, addirittura all’attenuarsi delle facoltà mentali (e qui il riferimento è chiaramente autobiografico).
Mi chiedo se sia possibile essere felici “comunque” in questi tempi di pensieri corti, di egoismo dominante, di mercato onnipresente e onnipotente senza, per questo, rinunciare all’attenzione, senza chiudersi in paradisi recintati e protetti.
Come fare per essere partecipi senza essere travolti dal male, dal brutto, dall’ingiusto che ci circonda da ogni lato? Come si fa a “farsi carico” dei mille problemi propri e altrui, lontani e vicini, senza restare schiacciati dal peso di questa massa infinita di dolori insensati, di ingiustizie, di violenza? A questo proposito mi viene in mente la figura di Alexander Langer, uno dei santi del mio personale calendario, un suicida che considero martire e vittima dell’altruismo e della propria sconfinata generosità.
Ogni tanto mi viene la tentazione di pensare che, per essere costantemente contenti, sia necessario un certo grado di stupidità e un forte livello di disattenzione nei confronti di ciò che ci circonda.
Fin qui (alcune fra le tante) domande che mi passano per la testa in questi giorni. Come ho già anticipato, non provo nemmeno a dare risposte, non conosco ricette, non ipotizzo soluzioni e tanto meno mi avventuro sul terreno sdrucciolevole dei consigli. Mi limito a qualche suggestione, mettendo su carta sensazioni e ipotesi, pensieri vaganti e tentativi autoconsolatori di cercare una via d’uscita.
A sottolineare il valore puramente ipotetico delle proposizioni che seguono, faccio iniziare ogni frase con la particella “se”, di chiaro valore dubitativo.
Se non ci lasciamo distrarre dal rumore di fondo della contemporaneità, se opponiamo all’obbligo della fretta esistenziale la tranquillità del tempo disteso, se facciamo attenzione a mettere ogni cosa nella giusta prospettiva, ci regaliamo un perpetuo stato di meraviglia.
Se proviamo a spostare il baricentro della nostra attenzione dall’io al tu, o almeno al noi, se riusciamo a non concentrare ansie, aspettative, pretese, speranze, sogni sull’esigua superficie della nostra persona e a dilatare così i nostri orizzonti, mettiamo le premesse per una serenità duratura. L’egoismo, infatti, è incompatibile con la gioia, perchè si può essere felici solo insieme (affermazione per me di valore assiomatico, postulato su cui si basano tutti i teoremi costruiti nel tempo con nomi diversi: cristianesimo, socialismo, comunismo).
Se riusciamo a vivere di poco e con poco, con bagagli piccoli e non ingombranti, ci regaliamo leggerezza e tranquillità.
E per chi ha la fortuna o la volontà di credere: se facciamo concretamente la scelta di dare fiducia a quella figura di Padre affidabile proposta da Cristo e di essere testimoni di una speranza, impegnati a realizzare qui ed ora il regno dei cieli, dovremmo mettere la nostra gioia al riparo dai capricci dell’umore, della salute, della considerazione altrui, della stessa storia. (L’uso del condizionale è tutt’altro che casuale).
Se riusciamo a cambiare aggettivi e sostantivi che regolano le nostre giornate e i nostri rapporti, a mettere tranquillità dove c’è fretta, accoglienza e gentilezza al posto di freddezza e contrasto, una faccia sorridente in mezzo alle tante “incazzate”, un gesto di premura invece di uno sgarbo…
E si potrebbe continuare all’infinito con la lista dei se, elenco che conviene lasciare aperto ad uso e consumo di chi abbia resistito fin qui nella lettura.
Cambiamo piuttosto argomento, pur rimanendo sempre in tema di domande (senza) risposta, di gioie e dolori.
Da un paio d’anni sto leggendo il vangelo di Giovanni. Nonostante il tempo passato, sono ancora molto lontano dal capirci qualcosa e continuo a perdermi nei giri di parole e nelle costruzioni architettoniche del vecchio evangelista. La lettura mi ha però confermato l’impressione che nel testo ci sia una netta prevalenza di domande rispetto alle rare risposte. Le prime parole che Giovanni mette in bocca a Cristo sono seguite dal punto interrogativo: – Che cosa cercate?-. I discepoli si guardano bene dal rispondere e chiedono a loro volta – Dove abiti? – E si va avanti così fino alla drammatica domanda senza risposta gridata al Padre con l’ultimo respiro: – perchè mi hai abbandonato?-.
Non riesco ad essere d’accordo con l’amato Bonhoeffer (altro santo del mio personale elenco) quando sostiene che la Bibbia è “la risposta a tutte le nostre domande”. Condivido in pieno invece la sua affermazione: “Compito del credente è domandare” e mi viene la tentazione di aggiungere, un po’ sconsolato, “senza pretendere risposta”, almeno in forma immediata, chiara e udibile.
Questo “sbilanciamento” dei testi evangelici sul versante del punto interrogativo piuttosto che di quello esclamativo, paradossalmente, mi è di consolazione, mi aiuta a vivere e a convivere col dubbio, mio costante compagno di viaggio, senza farmi troppi problemi.
Ma ho citato il quarto evangelista non solo per consolarmi dell’incapacità di fornire risposte ai quesiti sulla felicità.
La parola “gioia” in Giovanni è rara, non è certo fra le sue preferite. Nella prima parte del suo racconto, quella “gioiosa” dei primi miracoli, del vino di Cana, dei pani moltiplicati, stranamente, non la si incontra proprio. La troviamo, invece, ben quattro volte in pochissimi versetti nel capitolo 16, dal 20 al 24. “La vostra angoscia si trasformerà in gioia” “la vostra gioia non ve la toglierà nessuno” “chiedete e otterrete, perchè la vostra gioia sia piena” sono le frasi rassicuranti pronunciate quasi di seguito. Il contesto, però, è tutt’altro che gioioso, anzi, è denso di angoscia. Siamo nel lungo discorso che precede la passione.
Non riesco a cogliere il nesso fra questa ripetuta promessa di gioia e il terribile dolore incipiente, ma sicuramente c’è. Giovanni non è mai casuale e se tira fuori dal cappello questa parola così comune solo in vista del finale tragico ci sarà sicuramente un motivo. Un’altra questione irrisolta, da aggiungere al mucchio di quelle accumulate dall’inizio della chiacchierata. Ma ho l’impressione che la risposta a questa domanda sia veramente troppo difficile, tanto da non poter stare nello stretto confine delle parole e dei ragionamenti.
Sempre nel quarto vangelo, il termine “felice, beato” (macarioi, al plurale) lo si trova in seguito all’episodio chiave della lavanda dei piedi (Gv 13,17). Dopo la dimostrazione pratica e la conseguente spiegazione teorica, c’è l’annuncio di quello che sarà il “comandamento nuovo” dell’amore e del servizio reciproco. E la dichiarazione di felicità per chi, avendo capito il messaggio, lo traduce in pratica.
Giovanni, come al solito, non segue lo schema tracciato dai sinottici e costruisce una sua personale ed unica “beatitudine” legata al “suo” personale e unico comandamento dell’amore.
Amore. Parola a cui abbiamo appiccicato troppo miele e che sovente usiamo a sproposito.
Ma non sarà, per caso, proprio questa la risposta a tutte le domande precedenti?

Cervasca, 20 novembre 010 pubblicato sul Granello di dicembre 010