Indizi

Dell’esistenza di Dio non abbiamo prove.
Il tentarne dimostrazione è vuota impudenza, un misto molto umano di superficialità e arroganza. Per chi si dice cristiano, poi, è strada sbarrata dai continui rifiuti di Cristo di produrre “segni” a conferma delle sue affermazioni. I Vangeli in questo sono di un’onestà cristallina e suicida.
Alla fede non si arriva con la testa (anche se bisogna comunque tenerla sempre ben avvitata al collo, contro ogni deriva fideistica ed emozionale). Non basta l’intelligenza, non serve la sapienza, non è sufficiente la filosofia. La religione, poi, nel senso di appartenenza a un gruppo che si sente in rapporto privilegiato con Dio sulla base dell’aderenza a dottrine e pratiche, può essere addirittura controproducente.
Per tentare il grande salto ci si deve affidare a quel vento portante che, per difetto di capacità definitorie, chiamiamo spirito: lo “pneuma” greco che soffia dove vuole e rende personale, irripetibile e prezioso per ognuno il cammino della vita ed eventualmente della fede.
La parola Dio non è quindi, per me, separabile dal punto interrogativo che sempre la segue, fino a diventare parte integrante del nome. La mia inguaribile curiosità mi spinge però a indagare anche in questa direzione, a cercare di avventurarmi nelle sabbie mobili della risposta all’eterna domanda di ogni essere pensante: “Esiste Dio?”
Non sono impazzito del tutto, non ho alcuna pretesa di trovare soluzioni all’enigma, neppure sotto forma di tentativo consolatorio di autoconvinzione.
Il mio è solo un gioco da investigatore dilettante che, in mancanza di prove, deve accontentarsi, come in ogni giallo dozzinale, di indizi. Un gioco da bambino invecchiato, iniziato (non dovrei dirlo) durante un pomeriggio di riunioni scolastiche e continuato per riempire, da renitente televisivo felice non-possessore di scatole parlanti e schermi al plasma, questa serata da festival di Sanremo.
Il gioco di raccogliere prove indiziarie dell’esistenza di Dio.
Il primo indizio, per me, sono gli occhi.
Gli occhi dei bambini, certo, ma anche, e soprattutto, quelli dei vecchi. Gli occhi azzurri e quelli neri, quelli delle donne e quelli degli uomini, quelli ridenti e quelli disperati. Gli occhi limpidi e quelli resi opachi da stanchezza e disillusione.
Gli occhi che si agganciano ai tuoi e stabiliscono una relazione, mettono in contatto due anime senza bisogno di parole e di gesti.
Occhi capaci di raccontare vite intere nello spazio di un battito di ciglia.
Occhi che saranno l’ultimo ponte gettato verso l’altro, amico o sconosciuto che sia. Quando il corpo sarà già abitato dalla morte, le mani incapaci di tendersi, le braccia di muoversi, saranno proprio loro a tentare un ultimo contatto a cui affidare il riassunto di tutta la nostra traversata, il bisogno di un ultimo incontro quaggiù.
Occhi capaci di infinita resistenza: la vita ti svuota le gambe di forza, ti toglie fiato ai polmoni, ti ruba memoria e intelletto, ti cambia la faccia, ti fa cadere denti e capelli. Ma non può nulla contro la luce degli occhi. Quelli restano vivi, nonostante tutto.
A provare che il male, anche se molto più forte di noi, non è l’ultima parola.
Gli occhi mi parlano di Dio, sono prova di quella fratellanza universale che va oltre ogni idea, razza, barriera e mi rende difficile immaginare un mondo di figli senza un padre comune.
Altro indizio sono le mani. Capaci di meraviglie che non si spiegano con le formule meccaniche della fisiologia: neuroni, impulsi, muscoli, tendini. Perché le mani hanno memoria e intelligenza propria, sanno far cose che sorpassano ogni pedanteria teorica, ricordano quel che il cervello ha da tempo dimenticato. Chiunque suoni uno strumento musicale, abbia abilità artistiche o artigianali, o semplicemente scriva, sa che note, storie e oggetti sono frutto di capacità manuali e non intellettive, nascono dalle dita e non dalla testa.
Le mani sono strumenti di relazione molto più efficaci di ogni parola, sono messaggere di emozioni, comunicano sensazioni con un livello di intensità inarrivabile per la voce, il suono, l’immagine.
Le mani si sporcano e si lavano, si consumano e si riparano, induriscono in calli e si rigenerano in cicatrici.
Occhi, mani; potrei aggiungere i piedi, i volti. Sembra più un manuale di anatomia comparata che una divagazione su temi spirituali o filosofici.
Ma ci sono tanti altri sottili indizi della nascosta presenza divina che ci avvolge.
L’ostinazione di piccoli gesti di bene in condizioni di male assoluto, fiori capaci di vivere nell’aridità della roccia.
Uomini e donne che sono riusciti ad attraversare esperienze brutali e devastanti senza perdere del tutto la speranza o la capacità di amare comunque.
Due vecchi che camminano insieme tenendosi per mano. L’abbraccio di un amico. La bellezza del rapporto uomo-donna. I figli che crescono, quell’età magica che va dai sei mesi ai due anni. Il piacere della lettura e la magia della parola scritta, sia quella con l’iniziale maiuscola che consideriamo eco del pensare divino, sia quella spicciola che usiamo e ci scambiamo ogni giorno sotto varia forma.
E poi c’è un ultimo indizio, quello per me decisivo, anche se il più labile ed evanescente. Il meno razionale. Non ha un nome, non è un oggetto, una parte del corpo, una persona.
E’ una sorta di “presenza”, una vicinanza leggera.
La si avverte quando si cammina in solitudine, per tempi lunghi, misurati in giorni e settimane.
Un sentirsi seguito, o meglio, accompagnato. A volte, preceduto.
Un interlocutore silenzioso, un compagno di strada discreto. Una spalla cui appoggiarsi, l’eco che ci restituisce le parole lanciate nel vuoto, il riflesso dei nostri pensieri vagabondi. L’ombra in un pomeriggio d’estate, il primo sole che fa evaporare la brina di un mattino autunnale, un sorso di acqua fresca nella calura, il riparo, la sosta.
Certo, questo è solo un gioco di parole costruito fra un Consiglio di classe e la solita insonnia notturna.
Certo, stiamo parlando di impressioni, non di ragioni.
Certo, tanti indizi non valgono una prova.
Certo, siamo ben lontani dal terreno solido della scienza, ma anche da quello più soffice della filosofia, della teologia, della semplice razionalità.
Cose sfuggenti: uno sguardo, una stretta di mano, addirittura un fantasma.
Sono solo impressioni, parole che hanno l’inconsistenza della nebbia di un mattino d’estate, la leggerezza del soffio di vento che gioca a rincorrersi con le foglie secche.
Ma consola pensare che il vento e il vapore, questi indizi volatili e incorporei su cui poggia la mia poca fede, hanno qualche assonanza con lo spirito.
Sono tutti condensati nella parola greca pneuma, portatrice di entrambi i significati, quello meteorologico e quello spirituale.
L’unico ponte, anche se aereo e traballante, per avventurarci in quel punto interrogativo che chiamiamo Dio.

Cervasca, 19 febbraio 010 pubblicato sul Granello di giugno 010