Para-dossi

Vent’anni fa non c’erano proprio.
Ma questo vale per un mucchio di altre cose, dalle rotonde agli sciami di capannoni, dagli atei devoti ai razzisti padani, dalla finanza creativa agli integralisti di ogni razza e colore. Non voglio entrare in questo discorso sdrucciolevole che può portare a pericolose derive passatiste: i bei tempi andati, si stava meglio quando si stava peggio e via sproloquiando.
Mi riferisco semplicemente ai dossi rallentatraffico, quelle piccole gobbe malefiche giallo-nere che infestano le nostre strade, mettendo a dura prova sospensioni e colonna vertebrale.
Uno degli innumerevoli piccoli fastidi della quotidianità, trascurabili uno per uno, ma la cui sommatoria contribuisce a rendere depresse e irascibili le nostre giornate. Con l’aggravante della filosofia che sta dietro queste molestie diffuse: l’incapacità di far rispettare elementari regole di convivenza e la tendenza a risolvere i problemi con medicine che sono peggiori del male e colpiscono sempre chi non ha alcuna colpa.
Se passate un dosso ai dieci all’ora in bicicletta o col trattore mettete a repentaglio le vertebre lombari, mentre ai cento all’ora su un Suv o su una berlina di ultima generazione sentite appena un piacevole formicolio alla schiena.
Insomma, chi va piano e rispetta le regole è danneggiato, chi “se ne frega” è premiato. Tanto per chiarire chi sono i furbi e chi è costretto a recitare l’eterna parte del fesso.
Certo, ordinaria amministrazione, nulla di così grave da meritare commenti o attenzione da parte dei media.
Il problema è che i micro traumi ripetuti hanno effetto sommatorio, come ci dice la scienza, e fanno quindi altrettanto male di un’unica botta molto più forte. Con la differenza che quella si sente bene, mentre ai colpetti ci si abitua. Si sopportano, non ci si fa caso, non si reagisce. E si finisce con l’ernia del disco, senza neppure sapere a chi dire grazie.
Li elevo ad emblema di questi nostri giorni e della supina accettazione delle situazioni e regole assurde che li caratterizzano. Come non facciamo più caso agli scossoni dei dossi, così ci stiamo abituando a cose che, appena qualche anno fa, avrebbero provocato ben altre reazioni. Diritti conquistati con dure lotte dei lavoratori spariti in un giorno, erosione continua dei beni comuni, degli spazi di libertà e confronto, privatizzazioni selvagge di beni indispensabili, reati e comportamenti inaccettabili di politici di ogni ordine e grado.
Il grave è che non ci lamentiamo, non ce ne accorgiamo neppure più, abbiamo inglobato l’assurdo nel vivere quotidiano e lo diamo per scontato. Ma l’indifferenza non ci mette al riparo dei danni, anzi ci regala risentimento e frustrazione insieme, in una miscela che è l’ingrediente ottimale per la depressione. La rabbia che non si sfoga, che rimane compressa, che non è capace di trasformarsi in civile protesta e in una reazione efficace è destinata a trovare un altro bersaglio, spesso sbagliato. E finisce che il risultato è di prendersela con se stessi e chi sta più vicino. Si spiegano così le tante facce sempre incavolate, le reazioni spropositate, la tensione sui posti di lavoro, i drammi famigliari.
Così i dossi che i rovinano la schiena diventano simbolo dei para-dossi che infarciscono le nostre giornate. E qui il discorso può spaziare liberamente dal nazionale al locale, anzi, può estendersi al mondo intero. La prima cosa che abbiamo globalizzato pare essere la stupidità e la passiva accettazione di comportamenti e regole inaccettabili.
Partendo dal cortile di casa posso citare, in ordine sparso qualche para-dosso nostrano.
Il tanto strombazzato parco fluviale, che è senz’altro un’ottima cosa. Peccato che ci facciano passare l’autostrada.
L’utilissima e carissima est-ovest che serve a tutti meno che a pedoni, ciclisti e mezzi agricoli, cioè a quelli che ne avrebbero più bisogno. Per loro ci sono le piste ciclabili che diventano ghetti per biciclette (oltre che parcheggio gratuito, deposito di bidoni d’immondizia ed esposizione permanente di tombini di ogni tipologia) coi gendarmi in agguato pronti a multare chi mette le ruote fuori.
Una città equa e solidale, sostenibile e riciclabile, ecologica e biodegradabile. Col sindaco che gira in bicicletta e firma piani regolatori infarciti di palazzi e capannoni, raccordi e ponti autostradali, rotonde demenziali e tristi svincoli sovradimensionati.
Si chiacchiera piacevolmente ai convegni sul consumo dissennato del nostro territorio e intanto spuntano ogni giorno le famigerate recinzioni di plastica rossa, promesse di futuro cemento e di introiti per le affamate casse comunali. Come a dire che parlare non costa nulla e fa pure bene all’immagine, ma quando si tratta di decisioni concrete “gli affari sono affari”.
La parola “privatizzazione” che è contrabbandata per efficienza (ma dove sta scritto che l’ente pubblico debba essere incapace e sprecone?) e finisce sempre per essere un furto legalizzato di beni un tempo comuni.
I treni ad alta velocità che ingoiano tutte le risorse presenti e future per le moribonde ferrovie, col risultato che ogni euro buttato nella voragine delle linee rapide è un soldino sottratto alla manutenzione della rete normale. E con la conseguenza che pochi, carissimi, inutili treni teoricamente superveloci fanno rallentare tutti i normali convogli, indispensabili a chi viaggia per lavoro o per studio.
Elezioni regionali, fra poco, in cui posso scegliere, in pratica, fra due contendenti. Uno dice, a proposito di quanto sopra: “La Tav si farà ad ogni costo”, l’altro ribatte “L’Alta velocità è una priorità inderogabile”. Due alternative al prezzo di una.
Una chiesa cattolica che si interessa di tutto meno che alle parole del fondatore, arroccata nello stato più piccolo e meno democratico del mondo. Cardinali e prelati talmente occupati a confezionare moralismi e interferire con la bassa politica italiana da non avere più neppure il tempo di ricordare che il “Date a Cesare…” è comandamento che impone l’assoluta laicità di uno stato che voglia dirsi cristiano e che la parola “cattolico”, paradossalmente, vuol dire “di tutti, per tutti”. Anche, quindi, di quelli e per quelli che non la pensano esattamente come loro.
Reduci da Pontida, armati di spadone e ampolle che si ricordano improvvisamente delle sacre radici cristiane e lasciano i riti celtici per difendere improbabili crocefissi appesi ai muri. E intanto contribuiscono alla quotidiana crocefissione degli odiati extra-comunitari. Forse non sanno che l’intera Sacra Famiglia, Madonna compresa – per non parlare del gruppo di pescatori al seguito, Pietro in testa – non avrebbe diritto, in questo cristianissimo paese, neppure a un permesso di soggiorno turistico. Finirebbe, invece che sugli altari, in qualche centro di detenzione temporanea, in attesa del “respingimento”.
Un ministro, Brunetta, che vuole obbligare noi, suoi sudditi, alla fantozziana gentilezza forzata, dall’alto dei suoi modi da mercante di schiavi. Uno che dopo avermi definito “fannullone”, avermi dato del terrorista, aver chiamato “panzoni” i poliziotti, aver detto che “l’Associazione nazionale Magistrati è un mostro”, aver rifiutato di invitare la CGIL al tavolo delle trattative perché non la pensa come lui, aver confessato di essere un tipo “dal vaffa facile” pretende che io mi metta il cartellino al bavero e sorrida contento.
I piccoli traumi ripetuti, come quelli provocati da dossi e para-dossi, finiscono per causare gravi patologie. Ed hanno pure un effetto anestetico, alzano la soglia di sopportazione, creano assuefazione. Se non si reagisce adeguatamente, abbassano la qualità della vita, rovinano il tono dell’umore e le relazioni sociali.
In altre parole, potrei dire che sono l’esatto contrario del “Vivermeglio”.

Cervasca, 27 gennaio 010 pubblicato su Vivermeglio di febbraio 010