Democrazia: “ghe pensi mi/ i pensu mi”

12 ottobre 2009. Berlusconi parla a una platea di industriali e, dopo la ormai consueta sparata contro i media non ancora di sua proprietà e l’ennesimo invito a boicottare i giornali non allineati, dice testualmente: “Voi pensate a creare il benessere, per la libertà e la democrazia ghe pensi mi”.
“Suma bin ciapà!” è stato il mio pensiero immediato, una sorta di riflesso involontario nel piemontese mentale con cui parlo a me stesso, alla notizia che l’indaffarato Cavaliere si faccia carico, oltre che delle sorti del Milan, del suo impero mediatico e dell’azienda Italia, anche di queste due impegnative parole. Una reazione automatica, scatenata forse dal finale in dialetto meneghino a cui ho collegato, per assonanza, l’esclamazione nostrana.
Non ho intenzione di parlare qui del Presidente del Consiglio, delle sue battute di dubbio gusto, del suo modo di considerare la donna, di trattare gli avversari, di rapportarsi con le istituzioni: sono cose sotto gli occhi di tutti, anche se mi viene sovente il dubbio che le lenti di molti italiani siano appannate da disinformazione e nebbie televisive.
Mi interessano i tre sostantivi in italiano che precedono l’affermazione in lumbard.
Benessere, libertà, democrazia.
Il primo è affidato ai colleghi imprenditori, in una sorta di delega bonaria, come farebbe un professionista indaffarato che lascia i lavoretti banali ai giovani apprendisti.
Libertà e democrazia sono invece sua riserva di caccia: “ghe pensi mi!”.
“Ben-essere”: stare bene, vivere bene. Mi pare un concetto che va ben oltre il campo di azione degli industriali, attenti sovente più al proprio profitto che alla felicità altrui.
Stare bene è termine che ha dentro le buone relazioni con gli altri, il giusto tempo per sé e per i rapporti umani, la crescita spirituale, culturale e fisica, un ambiente gradevole e sicuro. E’ un quadro con tante pennellate e tanti toni cromatici, mi pare riduttivo identificarlo col grigio-cemento dei capannoni o col nero dell’asfalto.
Non è affatto sinonimo di progresso e neppure di ricchezza.
L’unità di misura del ben-essere non potrà mai essere l’euro e neppure il dollaro o l’oro. Nessun economista potrà mai inventare la ricetta per essere contenti e nessun industriale possiede la bacchetta magica per creare la felicità.
Ma la parte che mi preoccupa di più è la seconda. “Libertà” e “democrazia”, cancellate da quel “ghe pensi mi”
Il verbo “cancellare” qui non è casuale. Indica proprio l’insanabile contraddizione contenuta nella frase, indipendentemente da chi possa averla pronunciata.
Perché la libertà e la democrazia non ammettono deleghe, sono frutto di pazienza, di lotta, di resistenza. Sono regali che abbiamo ricevuto dai nostri padri e dalle nostre madri e che dobbiamo conservare e accrescere per i nostri figli.
La libertà non è mai gratis, ha un prezzo che qualcuno ha pagato. La democrazia non è mai per sempre, non è cosa acquisita, non si può mai dare per scontata.
Potremmo definirle, guardando la storia antica e recente e la drammatica attualità di tanti paesi, un “miracolo fragile”.
D’altra parte, basta pensare al sostantivo “democrazia”, fatto da due parole greche incollate fra loro. Popolo e governo, potere: “potere del popolo”. Il potere, per definizione, è merce ambita: tutti lo vogliono. Il popolo siamo noi, ognuno di noi. E’ quindi dovere di ognuno, oltre che sua convenienza, difendere il proprio “potere” dai molti che vogliono rubarlo. L’attuale abisso di degrado del nostro sistema politico dipende sì da coloro che occupano i vertici, ma anche dal vuoto di potere che noi tutti, cittadini incuranti e distratti, abbiamo lasciato alla base.
Il “ghe pensi mi” del Presidente deve diventare un “i pensu mi” detto ogni giorno coi fatti, col voto, con l’interessamento alla cosa pubblica da ognuno di noi.
Perché la democrazia vive solo se ciascuno se ne fa carico.
E ancora maggiore è la preoccupazione per quelle tre paroline in milanese perché sono state precedute, pochi giorni prima, dalla minaccia: “Gli italiani vedranno di che pasta sono fatto!”.
Fra le due esternazioni, il Nostro ha pure trovato il tempo di offendere in televisione la parlamentare Rosy Bindi, colpevole di pensare con la propria testa e di non appartenere alla categoria estetica della Carfagna: “ E’ più bella che intelligente”, ha detto. La frase la dice lunga, oltre che su buon gusto e correttezza di chi l’ha pronunciata, anche sul modo di considerare la donna (che deve essere sempre giovane, bella, disponibile e adorante) e di trattare gli avversari politici.
Le parole a ruota libera da riportare fra virgolette pronunciate in questi giorni dal Cavaliere sarebbero molte, dall’impagabile “sono meglio di Superman!”, al biblico “sono buono e giusto”, all’ottimistico “governerò per sempre”, agli attacchi al Presidente della Repubblica, alla Corte Costituzionale (tutti di sinistra), alla stampa estera (ci sputtana), al direttore di Repubblica (non gli rispondo perché è un evasore fiscale). – Parole dette da uno che ha ammesso un’evasione milionaria per coprire in sede processuale reati ben più gravi.-
In qualsiasi stato civile una sola di queste affermazioni decreterebbe la fine politica di chi l’ha pronunciata. E’ di questi giorni la notizia che in Germania un altissimo esponente della Banca centrale ha dovuto dimettersi per essersi lasciato scappare qualche incauto giudizio dai toni razzistici.
Ma quest’Italia sembra essere diventata una Repubblica fondata sull’indifferenza, in cui le parole sono considerate vuoti a perdere, merce deteriorabile con scadenza breve.
Come ha scritto su queste pagine l’amico Valter la scorsa settimana, la nostra democrazia è proprio invecchiata male. Sembriamo tutti imbambolati, diamo l’idea di un popolo in letargo o in coma profondo. Non siamo neppure più capaci di indignarci e reagire di fronte a comportamenti e frasi che altrove susciterebbero scandalo e ferme prese di posizione.
Ma mi ero ripromesso, all’inizio di questa chiacchierata, di non divagare sui giochi di parole e sulle affermazioni ad effetto del capo del Governo e di concentrarmi sul significato dei tre termini citati.
Concludo quindi con una speranza che mi auguro non sia pura utopia. Di certo, di questi tempi ha il colore di un sogno ad occhi aperti.
Mi piacerebbe vivere in un paese in cui ci sia una destra non fascista né razzista e una sinistra non massimalista né affaristica. E magari anche un centro con non abbia la tendenza a fare l’ago della bilancia e la vocazione a vendersi al migliore offerente.
Un paese in cui ognuno possa votare per chi sceglie lui e non per chi ha scelto un lontano partito. In cui gli avversari si rispettino a parole e coi fatti e i cittadini considerino colpa imperdonabile ogni mancanza di educazione di un uomo politico. In cui ognuno sia convinto che la ragione non sta mai tutta da una parte – la sua – e faccia il quotidiano esercizio di mettersi nei panni dell’altro.
Un paese in cui la politica, sia a livello nazionale che locale, torni ad essere servizio alla comunità e non mezzo per collezionare privilegi e fare i propri sporchi interessi.
Un paese in cui ogni elettore si senta responsabile del comportamento e delle scelte di colui che ha votato come suo rappresentante, lo controlli costantemente e pretenda onestà e trasparenza.
Un paese, insomma, in cui ognuno si svegli ogni giorno e dica: “alla libertà e alla democrazia (e magari pure al benessere) i pensu mi”.

Cervasca, 18 ottobre 09